venerdì 29 febbraio 2008

Il mio cinquantesimo compleanno

Per tutto il giorno Pasquale Bisonte si sentì un uomo diverso, felice e entusiasta come mai da vent’anni a quella parte. Un pensiero fisso si era conficcato come un chiodo nel suo tessuto connettivo.
Quella mattina, mentre si recava al lavoro con la sua Fiat uno rossa decappottabile, aveva notato una presenza divina camminare avanti e indietro nel vialetto alberato di olmi che circondava il capannone prefabbricato della ditta “Edilia 2000”, dove da vent’anni lavorava come metalmeccanico specializzato.
Era la prima volta che la vedeva da quelle parti, dove di solito battevano solo nigeriane appestate e malinconiche. Giunto davanti al cancello d’ingresso, aveva parcheggiato l’auto nel piazzale antistante, e nel breve tragitto a piedi che lo separava da un’altra giornata di duro lavoro, se l’era scannerizzata con gli occhi da capo a piedi, e l’aveva allocata in qualche kilobyte libero del suo cervello.
- Questa sarà sicuramente moldava o ucraina – pensò - e guarda come assomiglia a Sandrocchia mia!–
Sandra Milo, l’ironica e disinibita femme fatale di Fellini, incarnava il suo immaginario erotico, e nell’armadietto in fabbrica aveva anche una sua foto in bianco e nero ai tempi in cui era giovane.
Man mano che i suoi occhi scorrevano su di lei ne gustava i particolari: il pellicciotto bianco che l’avvolgeva come un uccellino, una minigonna di tela lucida e viola stile “pretty woman”, e un paio di calze a rete nere che imprigionavano due cosce sode e lunghe come due autostrade che svettavano verso promontori giunonici.
Dopo quell’incontro si era rintanato in officina, una scatola grigia di cemento a vista che sembrava un girone di lussuriosi, con le pareti addobbate di calendari Pirelli e chiavi inglesi. Nell'aria però, percepiva il richiamo ipnotico e ammaliante di quella sirena, e la sua immagine gli si appiccicava davanti agli occhi nei momenti più strani. Perfino quel cesso di Daniela Zampini, la ragioniera della ditta, aveva preso le sue sembianze.
- Pasquale, ricordati di chiudere bene il gabbiotto degli attrezzi quando vai via. Abbiamo già subito due furti a causa tua - gli aveva ringhiato contro come una iena. Lui si era girato, e invece di trovarsi di fronte quella mongolfiera della Zampini, col viso infestato da brufoli pustolosi, aveva visto lei, la biondona del viale, con la sua fronte alta e spaziosa, col suo nasino appuntito, con quegli occhi allungati color ghiaccio e con quei labbroni rossi e morbidi, che gli sussurravano provocanti: - Pasquale, ti prego, ricordati di chiudere il gabbiotto e poi corri qui da me a farti massaggiare quei muscoloni doloranti. So io quello che ci vuole per un vero uomo come te…-
La situazione era veramente grave.
Quando ripensava al fugace incontro di quella mattina, cadeva in una catarsi irreversibile e i colleghi si divertivano un casino a prenderlo per il culo nel vederlo inebetito con lo sguardo perso nel vuoto.
- Toc toc, c’è qualcuno in casa? – fece una voce alle sue spalle.
- Se non ti dai una mossa fratello mio, qui finisce che ce ne andiamo domani, e io c’ho da fare oggi. Appena finisco ti do una mano, ok? –
Quella voce aveva un nome e un cognome: Achille Facchini. Il suo migliore amico, forse l’unico.
Achille era stato assunto come fresatore insieme a Pasquale, ed era l’unico quel giorno che si sforzava di non trattarlo come un povero cerebroleso.
“Grazie Achille, hai ragione!”, gli rispose Pasquale

Tutti in azienda si erano accorti di quel suo stato di totale rincoglionimento, pure Guglielmo Palazzotti, il titolare.
Guglielmo Palazzotti, 45 anni e una laurea alla Bocconi, aveva ereditato la ditta “Edilia 2000” da suo padre Fausto, ex operaio, che l’aveva creata dal nulla e che in pochi anni era arrivata a contare circa quaranta operai. E così, morto il padre, si era ritrovato nelle mani un piccolo tesoro che stava provvedendo ad accrescere grazie alle sue competenze di manager bocconiano.
Palazzotti sapeva come far funzionare al meglio la sua azienda, come massimizzarne i profitti, e cioè fottendosene altamente dei diritti dei suoi lavoratori, che costringeva a straordinari massacranti e soprattutto non pagati, al grido di: “se non vi conviene, l’uscita la sapete”.
Ed eccolo ora, era proprio lì, di fronte a lui.
- Bisonte, in quale cazzo di pianeta hai traslocato con la testa oggi? – gli ruggì contro vedendolo in quello stato catatonico - Per domani dobbiamo terminare la commessa FIAT, chiaro? –.
Pasquale aveva annuito con un cenno timido del capo, pur sapendo che non ce l’avrebbe fatta a finire, e che sarebbe stato costretto a qualche ora di straordinario fuori programma.
- Ma che palle, è sempre la stessa storia! Ora basta però, oggi ti fotto io mio caro Palazzotti – pensò.
Quello non era un giorno qualunque, aveva una missione da compiere, e non poteva ritardare e rischiare così di non rivedere più la biondona dell’est. Perdere quell’occasione poteva significare non averne un’altra.
E poi, il giorno seguente sarebbe stato il suo cinquantesimo compleanno, quindi doveva festeggiare. Ma soprattutto era una questione di rispetto.
Si, proprio così, di rispetto verso il proprio attrezzo, che ormai non utilizzava praticamente più se non per andare in bagno.
Madre natura gli aveva dato un corpo e lui doveva averne rispetto, non poteva trascurare quell’animale che gli pulsava tra le gambe, e che alla vista di quel bendidio si era risvegliato da un lungo letargo per reclamare i propri diritti.
L’ultimo dei suoi propositi quel giorno era di uscire tardi da lavoro, e di ritornarsene a casa stanco morto.
Già si immaginava la scena: lui entrava in casa e sua moglie Carla era lì, in cucina, intenta a gustarsi la sua telenovela brasiliana preferita con la faccia appiccicata allo schermo del televisore per via della miopia, vestita con la sua orrenda vestaglia marrone e con i soliti bigodini in testa che la facevano assomigliare più a un porcospino che a una donna.
- Eh no signori miei, stasera il sottoscritto merita di più. Basta solo lavoro, casa e televisione. Qui mi ci vuole proprio una bella scopata, alla grande. Voglio che il pisello mi si rizzi come a vent’anni, voglio stringere ancora carne fresca tra le mani e dimostrare a me stesso di avere ancora qualche cartuccia da sparare. Quello che devo fare è semplice: me ne vado in bagno un po’ prima della fine del turno, e aspetto che tutti se ne vadano via, compreso Palazzotti. Esco dal bagno, firmo il registro delle presenze e via di corsa nel parcheggio. Domani mi inventerò una scusa, che ne so, che mi sono sentito male all’improvviso e finisco quello che mi rimane da finire della commessa. Tutto qui. Palazzotti si incazzerà come una bestia lo so, ma quand’è che non si incazza quello-

Ore 16:25 (5 minuti prima della fine del turno)

I bagni erano lì, a pochi passi dalla sua postazione. Pasquale li osservava con la stessa intensità e la stessa tensione muscolare di un gatto prima di avvinghiare un topo. Gettò uno sguardo repentino nei paraggi ed ebbe la conferma che nessuno faceva caso a lui; ecco, era quello il momento giusto. Si alzò e sgattaiolò nell’ultimo bagno cercando di non fare alcun rumore. Entrò, si sedette sulla tazza del water e cominciò a contare i minuti che lo separavano dalla fine del turno pomeridiano. Non si era mai soffermato a pensare a quanto potesse essere lungo un minuto, lo aveva sempre considerato un rapido scorrere di secondi e ora invece gli sembrava interminabile.
Posò lo sguardo sulle mattonelle rosa a fiori che ricoprivano le pareti di quel buco dove si era rinchiuso, e notò che erano molto simili a quelle che sua moglie Carla aveva scelto per il loro bagno di casa, così, come trascinate da quella considerazione, passarono davanti ai suoi occhi le istantanee della loro vita insieme.
Tutto ebbe inizio in parrocchia, agli incontri del sabato dei “Giovani dell’Azione Cattolica”.
Nel paesino di provincia dove vivevano, quello era l’unico posto in cui un ragazzo e una ragazza avrebbero potuto incontrarsi per stare insieme e parlare un po’ senza che le malelingue mormorassero sul loro conto. E così, giorno dopo giorno, tra un “padre nostro” e “un’ave maria”, si erano innamorati. A lei piaceva molto quel suo modo un po’ scanzonato di comportarsi, quella sua allegria contagiosa e quel modo un po’ ribelle di affrontare la vita.
Anche lui era innamorato di lei, o meglio, non di lei come persona, che a dire il vero non era un granché neanche da giovane sia per intelligenza che per bellezza, ma di una parte del suo corpo, l’unica degna di nota. Si, perché Carla aveva due belle tettone grosse, di quelle con l’areola larga e i capezzoli duri e turgidi che potevano tranquillamente essere usati come appendiabiti. Lei sapeva di quel suo amore sviscerato, e per tenerselo stretto e convincerlo a farsi sposare, non gliele aveva fatte mai né vedere né toccare.
E così, stufo di quel suo amore solamente platonico, si decise a chiedere la sua mano.
Successe una sera d’estate, al ristorante “Da Nino” che si trovava nella piazza principale del paese. Mentre ballavano “Una rotonda sul mare” di Fred Buongusto, lui la strinse a sé, e la pressione di quei due grossi meloni sul suo petto lo incoraggiò a proferire le paroline magiche: “Vuoi sposarmi Carla?”.
La prima notte di nozze fu qualcosa di altamente animalesco e immorale. Riservò alle tette di Carla le sue fantasie più perverse e nascoste in chissà quale angolino del suo subconscio froidiano: la piegò con forza a quattro zampe e cominciò a galopparla come una furia, come un fantino al palio di Siena che spinge il suo cavallo alla vittoria, come un assetato in un deserto che intravede un’oasi d’acqua, e ci si lancia dentro senza alcun pudore. Finché non sentì un brivido istantaneo e intenso prendere vita da un punto indefinito del suo cervello; lo sentì propagarsi come una scossa elettrica lungo la schiena e scorrere come un fiume in piena fino alla foce del suo corpo involontariamente contratto in una smorfia di piacere.
Ma da quel brivido non nacque mai alcun figlio, perché Pasquale non poteva averne.
Lo spermiogramma aveva parlato chiaro più di una volta: oligospermia e astenospermia dovute a un varicocele trascurato. Uguale a sterilità.
In parole povere i suoi spermatozoi erano pochi e pure poco veloci.
Insieme a Carla erano stati pure a San Giovanni Rotondo per chiedere una grazia a Padre Pio, ma era stato tutto inutile. Quel figlio che tanto avevano desiderato non arrivò mai.
Lui avrebbe voluto una femminuccia e lei un maschietto. A volte si fermava a pensare a che cosa si provasse a cullare il proprio figlio e a cambiargli i pannolini, vederlo crescere giorno dopo giorno, vederlo studiare e laurearsi, vederlo soffrire per amore o per il tradimento di un amico e non poter far niente perché la vita, e questo lui lo sapeva bene, era dura e spietata e riesce a stenderti se vuole, bisogna solo imparare ad assorbire i colpi senza andare giù.
A volte, di sera, mentre era davanti alla televisione, una figlia immaginaria lo chiamava e lo avvertiva: - Papà io sto uscendo, stasera rientro più tardi, ma stai tranquillo ok? – e lui tutto fiero di lei le rispondeva – Ok stellina, ma tieni il cellulare sempre acceso, non farmi preoccupare -
Un rumore secco, una porta sbattuta. Ecco di nuovo le mattonelle rosa del bagno davanti ai suoi occhi.
Cercò di scatto il polso destro, e l’orologio lo avvertì che il turno era finito da un bel po’.
Allungò come uno struzzo la testa fuori dalla porta del bagno, e dopo essersi assicurato che non c’era anima viva in giro, si avviò con passo felino verso il box grigio dov’era il registro delle presenze. Era quasi fatta. Doveva solo firmare quel cazzo di registro con la copertina grigia insudiciata di grasso e il gioco era fatto. Sarebbe scappato dall’uscita di emergenza fino al parcheggio esterno dove aveva parcheggiato il suo bolide.
Il cuore cominciò a pompargli più forte in petto e le gambe a tremargli come se camminasse su due trampoli. Superò di scatto l’ingresso del box. Ecco il registro!
Era proprio lì, sul tavolino in ferro arrugginito aderente alla parete alla sua destra. Lo aprì e con gli occhi cercò la voce “ORARIO DI USCITA”. Prese la bic nera poggiata accanto al registro e……
- Oaugh oaugh -
Quella tosse forzata proveniva dalle sue spalle e allora Pasquale capì tutto.
Capì che in quel momento il caso, il destino, la sfiga e chi più ne ha più ne metta, si erano alleati contro di lui. Si voltò, e a un metro dalla sua faccia trovò quella di Palazzotti, rossiccia e tesa come la tela di un quadro. Il suo sguardo fisso su di lui come un autoritratto, gli occhi sgranati che mostravano due pupille dilatate come quelle di un toro di Pamplona prima di infilzare le corna nel culo del turista di turno.
- Bisonte, e tu che ci fai qui? – gli chiese con un ghigno ironico.
- Io….beh…io veramente stavo andando via – sbiascicò Pasquale, tremante come una foglia al vento.
- E perché non ti ho visto uscire con tutti gli altri, eh? -
- Beh…ecco….vede signor Palazzotti, ero al bagno che vomitavo, non….non mi sono sentito bene – rispose con tono incerto, lasciando intuire che quella era stata la prima scusa che gli era passata per la testa.
- Bene, bene – sembrò dire Palazzotti con tono accomodante.
Con tre passi lenti il toro gli si avvicinò a dieci centimetri dal naso.
- Ora ascoltami bene, verme schifoso! – gli abbaiò contro, mentre dalle narici gli colava sul labbro superiore un filetto di muco biancastro – se c’è una cosa a questo mondo che non tollero, è che un mio operaio provi a prendermi per il culo. Tu questo lo sai, non è vero? –
Quell’espressione inferocita Pasquale la conosceva bene. Era quella del sergente Hartman in “Full Metal Jacket”, il suo film preferito.
- Oggi però Bisonte voglio essere misericordioso con te. Ho deciso di darti cinque secondi, cinque f-o-t-t-u-t-i secondi per tornare al tuo posto e completare quello che c’è da fare per domani, altrimenti quant’è vero Iddio ti stacco la testa dal collo a morsi, chiaro? –

Ma come poteva trattarlo così? Un vero mulo da fatica come lui, che si era guadagnato il titolo di “Stakanov l’emiliano” alla Festa dell’Unità di Modena, rispondendo bene a dieci domande sulle catene di montaggio.
Lui che aveva lavorato in quella fogna d’officina per vent’anni senza mai ribellarsi alle sue carognate.
E allora perché ribellarsi ora? Non ne valeva la pena. Aveva cinquant’anni e a quell’età non avrebbe più trovato un altro lavoro; quel misero stipendio di mille euro al mese gli serviva maledettamente, e farsi licenziare avrebbe significato sentirsi per sempre una nullità agli occhi di sua moglie.
- Che uomo è uno che non porta il pane a casa –
Ma quella che ora stava combattendo occhi negli occhi non era una guerra personale.
Era qualcosa di più, e questa consapevolezza si stava facendo strada nella sua testa. Era la guerra che ogni giorno, in ogni parte del mondo, si combatte tra bene e male, tra proletariato e borghesia, tra chi ha tutto e chi ha niente, tra giustizia e ingiustizia, tra guardia e ladro.
Ora gli era tutto chiaro. Qualche lacrima, liquida e casuale, cominciò a rigargli il viso incavato e barbuto come un ruscello d’acqua che scorre sul dorso di un prato incolto, mischiandosi alle goccioline di sudore che dalla fronte gli scendevano sugli occhi.
Alzò lo sguardo verso la lampada al neon, che dal soffitto continuava a sputare una luce incerta e bluastra su quella scenetta desolante. La mano destra stringeva ancora la penna bic nera.
Lo sguardo spento e annebbiato dalla luce del neon si posò sull’aguzzino di fronte a lui, inquadrandone prima gli occhi sgranati, poi la bocca sbavata di rabbia, e infine le pieghe del collo. Proprio lì, in quel punto si focalizzò la sua attenzione.

E tutto accadde nel lampo di un attimo, come sempre in questi casi. Un impulso bieco e irrefrenabile parte dal cervello e tutt’intorno diventa sfumato e indistinguibile.
E intanto quell’impulso si è propagato attraverso le braccia fino alle mani, che se sono vuote, raramente uccidono. Ma non fu quello il caso.
La penna bic si conficcò come un missile intelligente nella carotide di Palazzotti, e zampilli di sangue rosso vivo cominciarono a schizzare ovunque come proiettili infuocati, mentre Palazzotti crollava a terra razzolando come un pollo a cui hanno staccato la testa.
- E ora vammi a licenziare stronzo! –

Una lingua di catrame grigio e pieno di buche grandi come crateri si stendeva davanti alla Fiat uno rossa. Tutt’intorno al viale la campagna imbrunita allagava il paesaggio disseminandolo di sterpaglia abbrustolita, frigoriferi abbandonati e casolari in muratura pericolanti.
Il vento, caldo e impetuoso, inarcava le cime spoglie degli alberi e trascinava in alto le buste azzurrine dei rifiuti posati a terra accanto ai cassonetti traboccanti e sventrati dai cani randagi.
Come un ghepardo affamato, Pasquale si aggirava in quella savana in cerca della sua preda, gettando lo sguardo su qualsiasi cosa potesse dargli un indizio della sua presenza, ma niente, di Sandrocchia nemmeno l’ombra.
- Lo sapevo, è andata via, porco D….Dinci – gridò, tirando un pugno contro il volante – e ora?-
Accostò sulla sinistra, e si accorse che da quel lato del viale partiva un piccolo sentiero in terra battuta che si incuneava tra gli arbusti. Se il ricordo non lo tradiva, quel sentiero portava al vicino canale di scolo delle fabbriche della zona.
Scese dall’auto, e schermandosi gli occhi con la mano, intravide alla fine di quel viottolo sterrato una Lancia Prisma, parcheggiata davanti a un casolare col tetto sfondato.
- Secondo me sei lì dentro, non mi sfuggi! –
La guerra stava per iniziare. Col fucile carico tra le gambe, e il cuore a diecimila, si inerpicò come un vietcong per quel sentiero angusto.
Ma più avanzava e più sentiva provenire da quel casolare lamenti belanti e suoni distorti, finché, alla fine del sentiero, quei lamenti divennero vere e proprie grida d’aiuto lanciate da una voce femminile, e soffocate dai bassi di una musica assordante che usciva dai finestrini.
- No… prego…no….no……basta…….aiuto!!-
- Ma che diavolo succede lì dentro – pensò, gettandosi dietro un cespuglio per paura di essere visto. Fece due passi indietro come se dalla macchina lasciata nel viale qualcuno lo stesse tirando indietro con una corda.
- E ora che faccio? Non posso andarmene. Lì dentro c’è qualcuno che chiede aiuto, maledizione!- pensò con la testa tra le mani intente ad asciugare il sudore che gli colava sulla fronte.
- Devo andare a vedere quello che sta succedendo lì dentro -
Si stese pancia a terra e come una tartaruga marina arrancò fino alla parete del casolare. Si alzò lento, mantenendo la schiena aderente al muro, e senza fare il minimo rumore sbirciò dalla finestrella coi vetri spaccati che era lì alla sua sinistra.

Di fronte a quella scena, i bulbi oculari per poco non gli schizzarono fuori dalle orbite.
- Mio Dio, non è possibile! - disse, portandosi le mani al volto mentre riscendeva a terra aderente al muro. Un flusso di succhi gastrici cominciò a risalirgli l’esofago fino alla bocca, trattenuto solo dalla paura di essere scoperto.
Sandra era lì, nuda e chinata su un tavolino in legno scheggiato e impolverato, con le mani legate a due funi che partivano dal muro e che le stiracchiavano il busto in avanti, con le cosce divaricate e le caviglie allacciate ai piedi del tavolino. Dalla tempia sgorgava un rigagnolo di sangue che le impiastricciava le ciglia.
In piedi, dietro di lei, c’era Achille Facchini, nudo e con quel becco di carne stretto nella mano sinistra, intento a ispezionare con le dita dell’altra mano il corpo inerme di Sandra. Sul viso, l’espressione tesa di un picchio prima di spaccare la corteccia di un albero.
- Stà calma bellezza, vedrai come ti piacerà -
Dalle mura della stanza l’intonaco cadeva a pezzi, e il pavimento era un cumulo di calcinacci e barattoli di vernice vuoti. In un angolo della stanza c’era una bombola del gas arrugginita, e appesa alla porta di ingresso, una vecchia falce col manico in legno.
Pasquale sentì la pena per quella creatura occludergli ogni poro della pelle; si sentì annegare in quel lago di miseria di cui era testimone. Cominciò ad avvertire un bisogno vitale di respirare, il sangue gli pulsava in fronte come se il cuore si fosse trasferito lì, e le mani cominciarono a vibrare come corde di chitarra.
- Non posso permettere che accada una cosa del genere, non posso maledizione! – si ripeteva serrando le mascelle e stringendo i pugni finché le nocche non divennero di un colore bianco avorio.
Strisciando per terra come una biscia arrivò all’ingresso sull’altro lato del casolare. Si alzò in piedi e intravide la falce appesa al muro. Con uno scatto felino la afferrò, e col coraggio di un samurai si diresse in direzione di Facchini.
- LASCIALAAAA PORCOOOO!! –
- AAAHHHHHHH……. -
La lama entrò nel fianco di Facchini senza il minimo ostacolo, come se avesse attraversato un pezzo di burro rosso che a contatto con la lama era diventato liquido e denso.
Dopo l’attacco fulmineo, Pasquale mollò il manico e indietreggiò di qualche passo. Davanti a lui, un corpo tremante e boccheggiante muoveva passi lenti e vomitava sangue misto a saliva. Mentre le sue mani cercavano di estrarre quell’arnese penzolante dal fianco, Facchini cadde a terra, inciampando in un mucchio di calcinacci, e rimase lì, a soffocare tra i suoi rantoli.

Pasquale si avvicinò al tavolo dov’era incatenata Sandra, e cominciò a slegarle i lacci ai polsi e alle caviglie.
- Dobbiamo andarcene da qui –, le disse.
Appena si alzò da quel tavolo delle torture, Sandra si agganciò al suo collo.
- Ora non piangere più, è tutto finito - la consolò, asciugandole le lacrime col bordo della tuta da lavoro.

E insieme si avviarono barcollando verso l’uscita.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

...Ci speravo proprio di rileggere qualcosa di tuo caro Fanciullo!... :) E che sorpresa oggi, 10 minuti prima di pranzo (che poi sono diventati mezz'ora perchè sono restata incollata al monitor) quando ho visto questo tuo nuovo racconto. Mi è piaciuto parecchio però scorre a ritmo piu' lento degli altri. E il finale...sono curiosa di sapere se poi il protagonista torna dalla moglie anche se spero proprio di no :)
Ti abbraccio e ti ringrazio per questa nuova emozione che mi hai regalato.

-Pooh-

Anonimo ha detto...

Caro Ernest,
rispondo al tuo gentile commento lasciato sul mio blog. Sai, non mi sento autorizzato ad esprimere un parere tecnico: anch'io, come te, sono uno scrittore esordiente, con l'unica fortuna di aver trovato un editore (piccino, picciò...) che ha deciso di pubblicare il mio romanzo.
Ti dirò qualcosa, allora, come un comune lettore. Trovo che tu abbia una bella penna: scorre facile, in tre parole riesci a passare ad un flashback efficace per far capire al lettore il passato del personaggio; riesci a trovare delle belle immagini e colori per descrivere ambienti e situazioni; le storie hanno quella giusta dose di attesa.
Ciò che io non amo molto (ma non è necessariamente un difetto) è l'esagerazione nel descrivere certe cose: mi riferisco ad esempio ai riferimenti al sesso che fai nell'ultimo racconto. Naturalmente sono efficaci e funzionali, ma io preferisco accennarle certe cose più che riferirmi ad esse apertamemnte. Non che sia un moralista, figuriamoci, è solo una scelta stilistica. Ritengo che sia più elegante accennare soltanto a situazioni anche scabrose ed ecitanti. Ma è ovvio che se tu descrivi situazioni in un certo senso border-line un linguaggio forte è quasi d'obbligo.
Vedi, io scrivo romanzi d'avventura, di fantasia e lo faccio per allontanarmi da questa squallida realtà. Sarei in grado di scrivere qualcosa di "forte", ma poi starei male. E allora preferisco storie leggere. Leggere, non stupide perché comunque ci lavoro seriamente, documentandomi.
Se ti va, visto che sei di Caserta, il giorno 6 marzo alle 17.30 presento il mio libro a Napoli a piazza Municipio, presso la libreria edicolè. Mi farebbe piacere conoscerti.
Comunque hai stoffa, ti seguirò con attenzione...

Un abbraccio
Martin

Anonimo ha detto...

Ciao, ho accolto il tuo invito e ho letto il tuo racconto. Non è il mio genere, ad essere sinceri. Io scrivo e leggo cose molto diverse, dunque non posso esprimermi altro che superficialmente. Io penso che unoscrittore possa e debba far scaturire l'emozione dalle storie, dalla mimesi tra lettore e personaggio, dalla lingua che usa, e non da sangue e violenza. So che è una questione di punti di vista e di passioni, e dunque spero tu voglia rispettare la mia opinione come personale.
In compenso scrivi bene, mi pare, sei ironico quanto basta. Toglierei termini troppo gergali e di eloquio quotidiano. Non vanno bene su un testo scritto. La scrittura deve essere precisa, puntuale, tagliente, accuminata, tecnica, varia, ma non gergale. Ti dico anche che un testo narrativo deve sempre puntare alla descrizione approfondita dei personaggi. Per essere brevi, in un racconto, bisogna saltare altre cose, ma non rischiare di non dare un quadro dettagliato del personaggio. Il rischio è la superficialità.
Ai personaggi di questo racconto, pur nella sua asciuttezza, ci si lega rapidamente. Si partecipa, e questo è un elemento molto importante. Il finale mi sembra tronco, occorre svilupparlo. Chi legge ha bisogno di sapere cosa accade dopo, anche per sommi capi. Le citazioni di personaggi reali come la MIlo funzionano bene. Potresti sviluppare brevemente anche quelle. Nel complesso il racconto è discreto. Toglierei qualcosa, aggiungerei altro. Buone giornate.
ciao. Grazie della visita sul mio sito www.simoneperotti.it.

Antonella Lattanzi ha detto...

Ciao Michele
complimenti per i tuoi scritti.
Ti ho inviato una mail.
Un saluto
Antonella

Anonimo ha detto...

Ciao Ernesto,
raccolto l'invito e letto il pezzo su Pasquale Bisonte.
Lo trovo buono nel plot, decisamente cinematografico (evoca l'epos wertmulleriano), cattura il lettore e lo rende partecipe.
Lo stile è un po' da affinare, talvolta scivola nel colloquiale con qualche luogo comune linguistico-semantico di troppo (altamente, bolide, sparare cartucce, chi più ne ha più ne metta, strisciando come una biscia, scatto felino) e qualche sbavatura sintattica (froidiano).
Il respiro è buono tranne l'accelerata finale. Lì avresti potuto diffonderti sia nella sequenza omicida (con una slow-motion, per riprendere il parallelo cinematografico) sia nel seguito alla liberazione della ragazza.
Comunque la storia c'è ed è buona; rimane il lavoro di cesello sullo stile, che a mio avviso trasforma il logos in letteratura.