giovedì 3 aprile 2008

Ricordi improvvisi

Quel giorno il lungomare caboto era riscaldato dal sole acerbo di una primavera appena risvegliata.
Mentre vagavo senza meta, sentivo il rumore dei miei passi risuonare tra le viuzze che risalivano il paese fin nel centro storico, con le loro basole di calcare chiaro e levigato da infiniti calpestii.
A ogni respiro inalavo il profumo della salsedine che ricopriva ogni cosa intorno, e i miei occhi riflettevano il bianco spumeggiante delle onde che schiaffeggiavano la scogliera dall’altro lato del lungomare.
In lontananza, le vele variopinte delle barche coloravano l’orizzonte.
Era ormai ora di pranzo, e i rumori che provenivano dal mio stomaco non smettevano di ricordarmelo, alimentati da un acciottolio di piatti che proveniva dall’interno di una di quelle viuzze.
Spinto dalla curiosità e dalla fame galoppante, oltrepassai i banchi del mercato del pesce diretto alla sorgente di quell’orchestra di ceramiche battenti. All’ingresso del vico, aggrappata alla muratura scorticata delle case affacciate, c’era una piccola insegna bianca con una scritta rossa: “Taverna da Tanino”.
Svoltai l’angolo e mi trovai di fronte a due tavolini di plastica verdi che sembravano essere stati messi lì apposta per colmare la solitudine di quel piccolo vico spoglio dove neanche il sole entrava.
Erano coperti da tovaglie larghe di carta bianca, piegate sui bordi e tenute ferme da bicchieri di vetro e posate.
Mi incamminai verso quello che sembrava essere l’ingresso della taverna, quando ne uscì un uomo sulla quarantina, vestito con jeans chiari e con un maglione nero a collo alto.
Aveva i capelli neri e stopposi che scivolavano su due spalle tozze, e un volto ovale impanato in una barba selvatica. Sulla fronte bassa ondeggiavano rughe di pelle raggrinzita, che rotolavano fino ai lati di due occhi scuri, affusolati e tristi. Appena mi vide mi sorrise e due parentesi tonde si aprirono ai lati della sua bocca:
“Buon giorno, mangia qualcosa? Mò proprio mi hanno scaricato il pesce fresco!”, mi disse con una voce un po’ rauca, ma che diede a quelle parole un senso di genuinità quasi religiosa. Pochi gradini e mi ritrovai in una piccola grotticella intonacata di bianco, con pochi tavolini in legno e con l’aria malinconica dei posti di mare, in cui si è sempre in attesa di qualcosa che non arriva mai.
Mi sentii come a casa, anzi, forse era quella la mia casa.

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