martedì 24 giugno 2008

Ancora un minuto

E’ accaduto tutto così in fretta. Ho accostato davanti alla pensilina della fermata, aperto le porte e aspettato che salisse qualcuno. Il cielo quella sera era nuvoloso e senza stelle, ma da lontano riuscivo ancora a vedere le cime rosse delle colline che sovrastavano la città. Poi è successo. E’ stato un attimo. Ho sentito qualcuno afferrarmi alle spalle e schiacciarmi la testa contro il volante. “Fuori i soldi, forza!”, ha gridato. Ho cominciato a tremare. Cercavo di muovermi, di capire, ma ho sentito qualcosa di freddo premermi contro la nuca facendomi scricchiolare le vertebre del collo. Ero come paralizzato. Una donna ai primi posti ha stretto sul suo petto la bimba seduta accanto e ha iniziato a piangere. Un’altra voce, dal fondo, gridava indemoniata:“Hai sentito tu, muoviti o t’ammazzo!”. Perché stavano facendo quello al mio autobus? Erano quasi dieci anni che lo portavo a spasso per la città; un po’ era come se stessero rubando dentro casa mia. Quelle persone non si sarebbero più riprese dallo shock. Dovevo fare qualcosa, chiedergli di non fare cazzate che tanto gli avremmo dato quello che cercavano. Stavo per alzarmi quando è successo. E’ stato un suono forte e acuto ma senza alcun rimbombo, come se fosse stato soffocato dalle pareti. La gente sembrava impazzita, piangeva e gridava. Ho cercato di muovere la testa per vedere cos’era successo ma ero inchiodato al volante. La bimba ai primi posti piangeva tenendosi aggrappata al giaccone della donna. Per un attimo ho intravisto i suoi occhi. Erano grandi e chiari come quelli della mia Miriam. Cosa avrei dato per essere con lei in quel momento. Quella mattina aveva pianto perché voleva che l’accompagnassi a scuola al posto di sua madre. Io e Laura non stavamo più insieme da otto mesi ormai, da quando un giorno, in lacrime, mi aveva chiesto di stare da sola per un po’. “Sento che tra noi c’è qualcosa che non va, Luca!”, mi aveva detto. Ed io non avevo fatto il minimo sforzo per trattenerla, per capire cosa si stava consumando tra di noi. Avevo permesso al tempo di scorrermi addosso e di seppellirmi sotto uno strato di appagante quotidianità. Eppure sembravamo felici insieme. I soldi, certo, non sono mai stati troppi, ma ci accontentavamo di poco. Almeno così credevo; o forse ero io l’unico a stare bene, a lasciare che le cose ci piovessero addosso senza fare niente per cambiarle. Avrei dato qualsiasi cosa in quel momento per sedermi un istante accanto a lei, per guardarla arrotolare pensierosa un ciuffo di capelli tra le dita e sistemarlo dietro un orecchio. Forse non era troppo tardi. Forse potevamo darci un’altra possibilità. Forse. Poi non ho sentito più urla dietro di me, dovevano essersene andati. La bimba ai primi posti aveva le mani sul volto e continuava a piangere tra le braccia della donna. Dovevo rassicurarla che era tutto finito, che non aveva più niente da temere. Dovevo rassicurare tutti. Era il mio autobus quello, maledizione! Ora riuscivo a muovermi, ero libero, non sentivo più il ferro dietro la nuca. Mi sono avvicinato a lei. “Calmati, calmati, piccola! Tra un po’ sarai di nuovo casa!”. Ma non mi ha risposto, era terrorizzata. Mi sono guardato intorno. Le altre persone erano rannicchiate sui sediolini; una coppia di anziani si stringeva in un abbraccio serrato e due ragazzi si rassicuravano a vicenda accarezzandosi i capelli. “State calmi signori, è tutto finito. Ora chiamerò la polizia e ci dirà cosa fare!”. Nascosto dai sediolini, c’era un uomo steso a terra, immobile. Mi sono avvicinato.“Se ne sono andati!”, ha gridato uno dei ragazzi. L’uomo si è improvvisamente ripreso e tremando si è girato verso di me. Aveva il viso sporco di sangue e ansimava in preda a una crisi di nervi. “Stia calmo signore”, gli ho detto con tono pacato. Ha fissato stravolto qualcosa alle mie spalle. “Oh mio Dio, chiamiamo subito un’ambulanza!”, ha gridato. Mi sono voltato e ho visto un uomo riverso sul volante, con le braccia penzolanti e gli occhi spalancati.
Sapevo che sarebbe arrivata. Era accanto a me, vestita di nero. “Lascia che le veda un’ultima volta”, le ho chiesto. “Non è più possibile, mi dispiace”, ha detto. “Ti prego, una volta soltanto!”, ho replicato singhiozzando. Erano lì, in salotto ad aspettarmi sedute sul divano. Scherzavano. Miriam aveva preso un altro bel voto a scuola e Laura le raccomandava di dirmelo non appena fossi entrato in casa. “Vedrai come sarà contento papà”, le diceva pettinandole i capelli con la mano. Poi ha preso una mia maglietta dalla sedia ed è andata verso la finestra . L’ha stesa sul termosifone e ha guardato fuori. La pioggia veniva giù e rigava i vetri scossi dal vento. Solo in quel momento ho capito quanto le amavo. Ho cercato di avvicinarmi a loro, ma la donna vestita di nero mi ha fermato: “E’ ora di andare”. “Dammi ancora un minuto, ti scongiuro”.

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