martedì 24 giugno 2008

Ancora un minuto

E’ accaduto tutto così in fretta. Ho accostato davanti alla pensilina della fermata, aperto le porte e aspettato che salisse qualcuno. Il cielo quella sera era nuvoloso e senza stelle, ma da lontano riuscivo ancora a vedere le cime rosse delle colline che sovrastavano la città. Poi è successo. E’ stato un attimo. Ho sentito qualcuno afferrarmi alle spalle e schiacciarmi la testa contro il volante. “Fuori i soldi, forza!”, ha gridato. Ho cominciato a tremare. Cercavo di muovermi, di capire, ma ho sentito qualcosa di freddo premermi contro la nuca facendomi scricchiolare le vertebre del collo. Ero come paralizzato. Una donna ai primi posti ha stretto sul suo petto la bimba seduta accanto e ha iniziato a piangere. Un’altra voce, dal fondo, gridava indemoniata:“Hai sentito tu, muoviti o t’ammazzo!”. Perché stavano facendo quello al mio autobus? Erano quasi dieci anni che lo portavo a spasso per la città; un po’ era come se stessero rubando dentro casa mia. Quelle persone non si sarebbero più riprese dallo shock. Dovevo fare qualcosa, chiedergli di non fare cazzate che tanto gli avremmo dato quello che cercavano. Stavo per alzarmi quando è successo. E’ stato un suono forte e acuto ma senza alcun rimbombo, come se fosse stato soffocato dalle pareti. La gente sembrava impazzita, piangeva e gridava. Ho cercato di muovere la testa per vedere cos’era successo ma ero inchiodato al volante. La bimba ai primi posti piangeva tenendosi aggrappata al giaccone della donna. Per un attimo ho intravisto i suoi occhi. Erano grandi e chiari come quelli della mia Miriam. Cosa avrei dato per essere con lei in quel momento. Quella mattina aveva pianto perché voleva che l’accompagnassi a scuola al posto di sua madre. Io e Laura non stavamo più insieme da otto mesi ormai, da quando un giorno, in lacrime, mi aveva chiesto di stare da sola per un po’. “Sento che tra noi c’è qualcosa che non va, Luca!”, mi aveva detto. Ed io non avevo fatto il minimo sforzo per trattenerla, per capire cosa si stava consumando tra di noi. Avevo permesso al tempo di scorrermi addosso e di seppellirmi sotto uno strato di appagante quotidianità. Eppure sembravamo felici insieme. I soldi, certo, non sono mai stati troppi, ma ci accontentavamo di poco. Almeno così credevo; o forse ero io l’unico a stare bene, a lasciare che le cose ci piovessero addosso senza fare niente per cambiarle. Avrei dato qualsiasi cosa in quel momento per sedermi un istante accanto a lei, per guardarla arrotolare pensierosa un ciuffo di capelli tra le dita e sistemarlo dietro un orecchio. Forse non era troppo tardi. Forse potevamo darci un’altra possibilità. Forse. Poi non ho sentito più urla dietro di me, dovevano essersene andati. La bimba ai primi posti aveva le mani sul volto e continuava a piangere tra le braccia della donna. Dovevo rassicurarla che era tutto finito, che non aveva più niente da temere. Dovevo rassicurare tutti. Era il mio autobus quello, maledizione! Ora riuscivo a muovermi, ero libero, non sentivo più il ferro dietro la nuca. Mi sono avvicinato a lei. “Calmati, calmati, piccola! Tra un po’ sarai di nuovo casa!”. Ma non mi ha risposto, era terrorizzata. Mi sono guardato intorno. Le altre persone erano rannicchiate sui sediolini; una coppia di anziani si stringeva in un abbraccio serrato e due ragazzi si rassicuravano a vicenda accarezzandosi i capelli. “State calmi signori, è tutto finito. Ora chiamerò la polizia e ci dirà cosa fare!”. Nascosto dai sediolini, c’era un uomo steso a terra, immobile. Mi sono avvicinato.“Se ne sono andati!”, ha gridato uno dei ragazzi. L’uomo si è improvvisamente ripreso e tremando si è girato verso di me. Aveva il viso sporco di sangue e ansimava in preda a una crisi di nervi. “Stia calmo signore”, gli ho detto con tono pacato. Ha fissato stravolto qualcosa alle mie spalle. “Oh mio Dio, chiamiamo subito un’ambulanza!”, ha gridato. Mi sono voltato e ho visto un uomo riverso sul volante, con le braccia penzolanti e gli occhi spalancati.
Sapevo che sarebbe arrivata. Era accanto a me, vestita di nero. “Lascia che le veda un’ultima volta”, le ho chiesto. “Non è più possibile, mi dispiace”, ha detto. “Ti prego, una volta soltanto!”, ho replicato singhiozzando. Erano lì, in salotto ad aspettarmi sedute sul divano. Scherzavano. Miriam aveva preso un altro bel voto a scuola e Laura le raccomandava di dirmelo non appena fossi entrato in casa. “Vedrai come sarà contento papà”, le diceva pettinandole i capelli con la mano. Poi ha preso una mia maglietta dalla sedia ed è andata verso la finestra . L’ha stesa sul termosifone e ha guardato fuori. La pioggia veniva giù e rigava i vetri scossi dal vento. Solo in quel momento ho capito quanto le amavo. Ho cercato di avvicinarmi a loro, ma la donna vestita di nero mi ha fermato: “E’ ora di andare”. “Dammi ancora un minuto, ti scongiuro”.

giovedì 3 aprile 2008

Ricordi improvvisi

Quel giorno il lungomare caboto era riscaldato dal sole acerbo di una primavera appena risvegliata.
Mentre vagavo senza meta, sentivo il rumore dei miei passi risuonare tra le viuzze che risalivano il paese fin nel centro storico, con le loro basole di calcare chiaro e levigato da infiniti calpestii.
A ogni respiro inalavo il profumo della salsedine che ricopriva ogni cosa intorno, e i miei occhi riflettevano il bianco spumeggiante delle onde che schiaffeggiavano la scogliera dall’altro lato del lungomare.
In lontananza, le vele variopinte delle barche coloravano l’orizzonte.
Era ormai ora di pranzo, e i rumori che provenivano dal mio stomaco non smettevano di ricordarmelo, alimentati da un acciottolio di piatti che proveniva dall’interno di una di quelle viuzze.
Spinto dalla curiosità e dalla fame galoppante, oltrepassai i banchi del mercato del pesce diretto alla sorgente di quell’orchestra di ceramiche battenti. All’ingresso del vico, aggrappata alla muratura scorticata delle case affacciate, c’era una piccola insegna bianca con una scritta rossa: “Taverna da Tanino”.
Svoltai l’angolo e mi trovai di fronte a due tavolini di plastica verdi che sembravano essere stati messi lì apposta per colmare la solitudine di quel piccolo vico spoglio dove neanche il sole entrava.
Erano coperti da tovaglie larghe di carta bianca, piegate sui bordi e tenute ferme da bicchieri di vetro e posate.
Mi incamminai verso quello che sembrava essere l’ingresso della taverna, quando ne uscì un uomo sulla quarantina, vestito con jeans chiari e con un maglione nero a collo alto.
Aveva i capelli neri e stopposi che scivolavano su due spalle tozze, e un volto ovale impanato in una barba selvatica. Sulla fronte bassa ondeggiavano rughe di pelle raggrinzita, che rotolavano fino ai lati di due occhi scuri, affusolati e tristi. Appena mi vide mi sorrise e due parentesi tonde si aprirono ai lati della sua bocca:
“Buon giorno, mangia qualcosa? Mò proprio mi hanno scaricato il pesce fresco!”, mi disse con una voce un po’ rauca, ma che diede a quelle parole un senso di genuinità quasi religiosa. Pochi gradini e mi ritrovai in una piccola grotticella intonacata di bianco, con pochi tavolini in legno e con l’aria malinconica dei posti di mare, in cui si è sempre in attesa di qualcosa che non arriva mai.
Mi sentii come a casa, anzi, forse era quella la mia casa.

venerdì 29 febbraio 2008

Il mio cinquantesimo compleanno

Per tutto il giorno Pasquale Bisonte si sentì un uomo diverso, felice e entusiasta come mai da vent’anni a quella parte. Un pensiero fisso si era conficcato come un chiodo nel suo tessuto connettivo.
Quella mattina, mentre si recava al lavoro con la sua Fiat uno rossa decappottabile, aveva notato una presenza divina camminare avanti e indietro nel vialetto alberato di olmi che circondava il capannone prefabbricato della ditta “Edilia 2000”, dove da vent’anni lavorava come metalmeccanico specializzato.
Era la prima volta che la vedeva da quelle parti, dove di solito battevano solo nigeriane appestate e malinconiche. Giunto davanti al cancello d’ingresso, aveva parcheggiato l’auto nel piazzale antistante, e nel breve tragitto a piedi che lo separava da un’altra giornata di duro lavoro, se l’era scannerizzata con gli occhi da capo a piedi, e l’aveva allocata in qualche kilobyte libero del suo cervello.
- Questa sarà sicuramente moldava o ucraina – pensò - e guarda come assomiglia a Sandrocchia mia!–
Sandra Milo, l’ironica e disinibita femme fatale di Fellini, incarnava il suo immaginario erotico, e nell’armadietto in fabbrica aveva anche una sua foto in bianco e nero ai tempi in cui era giovane.
Man mano che i suoi occhi scorrevano su di lei ne gustava i particolari: il pellicciotto bianco che l’avvolgeva come un uccellino, una minigonna di tela lucida e viola stile “pretty woman”, e un paio di calze a rete nere che imprigionavano due cosce sode e lunghe come due autostrade che svettavano verso promontori giunonici.
Dopo quell’incontro si era rintanato in officina, una scatola grigia di cemento a vista che sembrava un girone di lussuriosi, con le pareti addobbate di calendari Pirelli e chiavi inglesi. Nell'aria però, percepiva il richiamo ipnotico e ammaliante di quella sirena, e la sua immagine gli si appiccicava davanti agli occhi nei momenti più strani. Perfino quel cesso di Daniela Zampini, la ragioniera della ditta, aveva preso le sue sembianze.
- Pasquale, ricordati di chiudere bene il gabbiotto degli attrezzi quando vai via. Abbiamo già subito due furti a causa tua - gli aveva ringhiato contro come una iena. Lui si era girato, e invece di trovarsi di fronte quella mongolfiera della Zampini, col viso infestato da brufoli pustolosi, aveva visto lei, la biondona del viale, con la sua fronte alta e spaziosa, col suo nasino appuntito, con quegli occhi allungati color ghiaccio e con quei labbroni rossi e morbidi, che gli sussurravano provocanti: - Pasquale, ti prego, ricordati di chiudere il gabbiotto e poi corri qui da me a farti massaggiare quei muscoloni doloranti. So io quello che ci vuole per un vero uomo come te…-
La situazione era veramente grave.
Quando ripensava al fugace incontro di quella mattina, cadeva in una catarsi irreversibile e i colleghi si divertivano un casino a prenderlo per il culo nel vederlo inebetito con lo sguardo perso nel vuoto.
- Toc toc, c’è qualcuno in casa? – fece una voce alle sue spalle.
- Se non ti dai una mossa fratello mio, qui finisce che ce ne andiamo domani, e io c’ho da fare oggi. Appena finisco ti do una mano, ok? –
Quella voce aveva un nome e un cognome: Achille Facchini. Il suo migliore amico, forse l’unico.
Achille era stato assunto come fresatore insieme a Pasquale, ed era l’unico quel giorno che si sforzava di non trattarlo come un povero cerebroleso.
“Grazie Achille, hai ragione!”, gli rispose Pasquale

Tutti in azienda si erano accorti di quel suo stato di totale rincoglionimento, pure Guglielmo Palazzotti, il titolare.
Guglielmo Palazzotti, 45 anni e una laurea alla Bocconi, aveva ereditato la ditta “Edilia 2000” da suo padre Fausto, ex operaio, che l’aveva creata dal nulla e che in pochi anni era arrivata a contare circa quaranta operai. E così, morto il padre, si era ritrovato nelle mani un piccolo tesoro che stava provvedendo ad accrescere grazie alle sue competenze di manager bocconiano.
Palazzotti sapeva come far funzionare al meglio la sua azienda, come massimizzarne i profitti, e cioè fottendosene altamente dei diritti dei suoi lavoratori, che costringeva a straordinari massacranti e soprattutto non pagati, al grido di: “se non vi conviene, l’uscita la sapete”.
Ed eccolo ora, era proprio lì, di fronte a lui.
- Bisonte, in quale cazzo di pianeta hai traslocato con la testa oggi? – gli ruggì contro vedendolo in quello stato catatonico - Per domani dobbiamo terminare la commessa FIAT, chiaro? –.
Pasquale aveva annuito con un cenno timido del capo, pur sapendo che non ce l’avrebbe fatta a finire, e che sarebbe stato costretto a qualche ora di straordinario fuori programma.
- Ma che palle, è sempre la stessa storia! Ora basta però, oggi ti fotto io mio caro Palazzotti – pensò.
Quello non era un giorno qualunque, aveva una missione da compiere, e non poteva ritardare e rischiare così di non rivedere più la biondona dell’est. Perdere quell’occasione poteva significare non averne un’altra.
E poi, il giorno seguente sarebbe stato il suo cinquantesimo compleanno, quindi doveva festeggiare. Ma soprattutto era una questione di rispetto.
Si, proprio così, di rispetto verso il proprio attrezzo, che ormai non utilizzava praticamente più se non per andare in bagno.
Madre natura gli aveva dato un corpo e lui doveva averne rispetto, non poteva trascurare quell’animale che gli pulsava tra le gambe, e che alla vista di quel bendidio si era risvegliato da un lungo letargo per reclamare i propri diritti.
L’ultimo dei suoi propositi quel giorno era di uscire tardi da lavoro, e di ritornarsene a casa stanco morto.
Già si immaginava la scena: lui entrava in casa e sua moglie Carla era lì, in cucina, intenta a gustarsi la sua telenovela brasiliana preferita con la faccia appiccicata allo schermo del televisore per via della miopia, vestita con la sua orrenda vestaglia marrone e con i soliti bigodini in testa che la facevano assomigliare più a un porcospino che a una donna.
- Eh no signori miei, stasera il sottoscritto merita di più. Basta solo lavoro, casa e televisione. Qui mi ci vuole proprio una bella scopata, alla grande. Voglio che il pisello mi si rizzi come a vent’anni, voglio stringere ancora carne fresca tra le mani e dimostrare a me stesso di avere ancora qualche cartuccia da sparare. Quello che devo fare è semplice: me ne vado in bagno un po’ prima della fine del turno, e aspetto che tutti se ne vadano via, compreso Palazzotti. Esco dal bagno, firmo il registro delle presenze e via di corsa nel parcheggio. Domani mi inventerò una scusa, che ne so, che mi sono sentito male all’improvviso e finisco quello che mi rimane da finire della commessa. Tutto qui. Palazzotti si incazzerà come una bestia lo so, ma quand’è che non si incazza quello-

Ore 16:25 (5 minuti prima della fine del turno)

I bagni erano lì, a pochi passi dalla sua postazione. Pasquale li osservava con la stessa intensità e la stessa tensione muscolare di un gatto prima di avvinghiare un topo. Gettò uno sguardo repentino nei paraggi ed ebbe la conferma che nessuno faceva caso a lui; ecco, era quello il momento giusto. Si alzò e sgattaiolò nell’ultimo bagno cercando di non fare alcun rumore. Entrò, si sedette sulla tazza del water e cominciò a contare i minuti che lo separavano dalla fine del turno pomeridiano. Non si era mai soffermato a pensare a quanto potesse essere lungo un minuto, lo aveva sempre considerato un rapido scorrere di secondi e ora invece gli sembrava interminabile.
Posò lo sguardo sulle mattonelle rosa a fiori che ricoprivano le pareti di quel buco dove si era rinchiuso, e notò che erano molto simili a quelle che sua moglie Carla aveva scelto per il loro bagno di casa, così, come trascinate da quella considerazione, passarono davanti ai suoi occhi le istantanee della loro vita insieme.
Tutto ebbe inizio in parrocchia, agli incontri del sabato dei “Giovani dell’Azione Cattolica”.
Nel paesino di provincia dove vivevano, quello era l’unico posto in cui un ragazzo e una ragazza avrebbero potuto incontrarsi per stare insieme e parlare un po’ senza che le malelingue mormorassero sul loro conto. E così, giorno dopo giorno, tra un “padre nostro” e “un’ave maria”, si erano innamorati. A lei piaceva molto quel suo modo un po’ scanzonato di comportarsi, quella sua allegria contagiosa e quel modo un po’ ribelle di affrontare la vita.
Anche lui era innamorato di lei, o meglio, non di lei come persona, che a dire il vero non era un granché neanche da giovane sia per intelligenza che per bellezza, ma di una parte del suo corpo, l’unica degna di nota. Si, perché Carla aveva due belle tettone grosse, di quelle con l’areola larga e i capezzoli duri e turgidi che potevano tranquillamente essere usati come appendiabiti. Lei sapeva di quel suo amore sviscerato, e per tenerselo stretto e convincerlo a farsi sposare, non gliele aveva fatte mai né vedere né toccare.
E così, stufo di quel suo amore solamente platonico, si decise a chiedere la sua mano.
Successe una sera d’estate, al ristorante “Da Nino” che si trovava nella piazza principale del paese. Mentre ballavano “Una rotonda sul mare” di Fred Buongusto, lui la strinse a sé, e la pressione di quei due grossi meloni sul suo petto lo incoraggiò a proferire le paroline magiche: “Vuoi sposarmi Carla?”.
La prima notte di nozze fu qualcosa di altamente animalesco e immorale. Riservò alle tette di Carla le sue fantasie più perverse e nascoste in chissà quale angolino del suo subconscio froidiano: la piegò con forza a quattro zampe e cominciò a galopparla come una furia, come un fantino al palio di Siena che spinge il suo cavallo alla vittoria, come un assetato in un deserto che intravede un’oasi d’acqua, e ci si lancia dentro senza alcun pudore. Finché non sentì un brivido istantaneo e intenso prendere vita da un punto indefinito del suo cervello; lo sentì propagarsi come una scossa elettrica lungo la schiena e scorrere come un fiume in piena fino alla foce del suo corpo involontariamente contratto in una smorfia di piacere.
Ma da quel brivido non nacque mai alcun figlio, perché Pasquale non poteva averne.
Lo spermiogramma aveva parlato chiaro più di una volta: oligospermia e astenospermia dovute a un varicocele trascurato. Uguale a sterilità.
In parole povere i suoi spermatozoi erano pochi e pure poco veloci.
Insieme a Carla erano stati pure a San Giovanni Rotondo per chiedere una grazia a Padre Pio, ma era stato tutto inutile. Quel figlio che tanto avevano desiderato non arrivò mai.
Lui avrebbe voluto una femminuccia e lei un maschietto. A volte si fermava a pensare a che cosa si provasse a cullare il proprio figlio e a cambiargli i pannolini, vederlo crescere giorno dopo giorno, vederlo studiare e laurearsi, vederlo soffrire per amore o per il tradimento di un amico e non poter far niente perché la vita, e questo lui lo sapeva bene, era dura e spietata e riesce a stenderti se vuole, bisogna solo imparare ad assorbire i colpi senza andare giù.
A volte, di sera, mentre era davanti alla televisione, una figlia immaginaria lo chiamava e lo avvertiva: - Papà io sto uscendo, stasera rientro più tardi, ma stai tranquillo ok? – e lui tutto fiero di lei le rispondeva – Ok stellina, ma tieni il cellulare sempre acceso, non farmi preoccupare -
Un rumore secco, una porta sbattuta. Ecco di nuovo le mattonelle rosa del bagno davanti ai suoi occhi.
Cercò di scatto il polso destro, e l’orologio lo avvertì che il turno era finito da un bel po’.
Allungò come uno struzzo la testa fuori dalla porta del bagno, e dopo essersi assicurato che non c’era anima viva in giro, si avviò con passo felino verso il box grigio dov’era il registro delle presenze. Era quasi fatta. Doveva solo firmare quel cazzo di registro con la copertina grigia insudiciata di grasso e il gioco era fatto. Sarebbe scappato dall’uscita di emergenza fino al parcheggio esterno dove aveva parcheggiato il suo bolide.
Il cuore cominciò a pompargli più forte in petto e le gambe a tremargli come se camminasse su due trampoli. Superò di scatto l’ingresso del box. Ecco il registro!
Era proprio lì, sul tavolino in ferro arrugginito aderente alla parete alla sua destra. Lo aprì e con gli occhi cercò la voce “ORARIO DI USCITA”. Prese la bic nera poggiata accanto al registro e……
- Oaugh oaugh -
Quella tosse forzata proveniva dalle sue spalle e allora Pasquale capì tutto.
Capì che in quel momento il caso, il destino, la sfiga e chi più ne ha più ne metta, si erano alleati contro di lui. Si voltò, e a un metro dalla sua faccia trovò quella di Palazzotti, rossiccia e tesa come la tela di un quadro. Il suo sguardo fisso su di lui come un autoritratto, gli occhi sgranati che mostravano due pupille dilatate come quelle di un toro di Pamplona prima di infilzare le corna nel culo del turista di turno.
- Bisonte, e tu che ci fai qui? – gli chiese con un ghigno ironico.
- Io….beh…io veramente stavo andando via – sbiascicò Pasquale, tremante come una foglia al vento.
- E perché non ti ho visto uscire con tutti gli altri, eh? -
- Beh…ecco….vede signor Palazzotti, ero al bagno che vomitavo, non….non mi sono sentito bene – rispose con tono incerto, lasciando intuire che quella era stata la prima scusa che gli era passata per la testa.
- Bene, bene – sembrò dire Palazzotti con tono accomodante.
Con tre passi lenti il toro gli si avvicinò a dieci centimetri dal naso.
- Ora ascoltami bene, verme schifoso! – gli abbaiò contro, mentre dalle narici gli colava sul labbro superiore un filetto di muco biancastro – se c’è una cosa a questo mondo che non tollero, è che un mio operaio provi a prendermi per il culo. Tu questo lo sai, non è vero? –
Quell’espressione inferocita Pasquale la conosceva bene. Era quella del sergente Hartman in “Full Metal Jacket”, il suo film preferito.
- Oggi però Bisonte voglio essere misericordioso con te. Ho deciso di darti cinque secondi, cinque f-o-t-t-u-t-i secondi per tornare al tuo posto e completare quello che c’è da fare per domani, altrimenti quant’è vero Iddio ti stacco la testa dal collo a morsi, chiaro? –

Ma come poteva trattarlo così? Un vero mulo da fatica come lui, che si era guadagnato il titolo di “Stakanov l’emiliano” alla Festa dell’Unità di Modena, rispondendo bene a dieci domande sulle catene di montaggio.
Lui che aveva lavorato in quella fogna d’officina per vent’anni senza mai ribellarsi alle sue carognate.
E allora perché ribellarsi ora? Non ne valeva la pena. Aveva cinquant’anni e a quell’età non avrebbe più trovato un altro lavoro; quel misero stipendio di mille euro al mese gli serviva maledettamente, e farsi licenziare avrebbe significato sentirsi per sempre una nullità agli occhi di sua moglie.
- Che uomo è uno che non porta il pane a casa –
Ma quella che ora stava combattendo occhi negli occhi non era una guerra personale.
Era qualcosa di più, e questa consapevolezza si stava facendo strada nella sua testa. Era la guerra che ogni giorno, in ogni parte del mondo, si combatte tra bene e male, tra proletariato e borghesia, tra chi ha tutto e chi ha niente, tra giustizia e ingiustizia, tra guardia e ladro.
Ora gli era tutto chiaro. Qualche lacrima, liquida e casuale, cominciò a rigargli il viso incavato e barbuto come un ruscello d’acqua che scorre sul dorso di un prato incolto, mischiandosi alle goccioline di sudore che dalla fronte gli scendevano sugli occhi.
Alzò lo sguardo verso la lampada al neon, che dal soffitto continuava a sputare una luce incerta e bluastra su quella scenetta desolante. La mano destra stringeva ancora la penna bic nera.
Lo sguardo spento e annebbiato dalla luce del neon si posò sull’aguzzino di fronte a lui, inquadrandone prima gli occhi sgranati, poi la bocca sbavata di rabbia, e infine le pieghe del collo. Proprio lì, in quel punto si focalizzò la sua attenzione.

E tutto accadde nel lampo di un attimo, come sempre in questi casi. Un impulso bieco e irrefrenabile parte dal cervello e tutt’intorno diventa sfumato e indistinguibile.
E intanto quell’impulso si è propagato attraverso le braccia fino alle mani, che se sono vuote, raramente uccidono. Ma non fu quello il caso.
La penna bic si conficcò come un missile intelligente nella carotide di Palazzotti, e zampilli di sangue rosso vivo cominciarono a schizzare ovunque come proiettili infuocati, mentre Palazzotti crollava a terra razzolando come un pollo a cui hanno staccato la testa.
- E ora vammi a licenziare stronzo! –

Una lingua di catrame grigio e pieno di buche grandi come crateri si stendeva davanti alla Fiat uno rossa. Tutt’intorno al viale la campagna imbrunita allagava il paesaggio disseminandolo di sterpaglia abbrustolita, frigoriferi abbandonati e casolari in muratura pericolanti.
Il vento, caldo e impetuoso, inarcava le cime spoglie degli alberi e trascinava in alto le buste azzurrine dei rifiuti posati a terra accanto ai cassonetti traboccanti e sventrati dai cani randagi.
Come un ghepardo affamato, Pasquale si aggirava in quella savana in cerca della sua preda, gettando lo sguardo su qualsiasi cosa potesse dargli un indizio della sua presenza, ma niente, di Sandrocchia nemmeno l’ombra.
- Lo sapevo, è andata via, porco D….Dinci – gridò, tirando un pugno contro il volante – e ora?-
Accostò sulla sinistra, e si accorse che da quel lato del viale partiva un piccolo sentiero in terra battuta che si incuneava tra gli arbusti. Se il ricordo non lo tradiva, quel sentiero portava al vicino canale di scolo delle fabbriche della zona.
Scese dall’auto, e schermandosi gli occhi con la mano, intravide alla fine di quel viottolo sterrato una Lancia Prisma, parcheggiata davanti a un casolare col tetto sfondato.
- Secondo me sei lì dentro, non mi sfuggi! –
La guerra stava per iniziare. Col fucile carico tra le gambe, e il cuore a diecimila, si inerpicò come un vietcong per quel sentiero angusto.
Ma più avanzava e più sentiva provenire da quel casolare lamenti belanti e suoni distorti, finché, alla fine del sentiero, quei lamenti divennero vere e proprie grida d’aiuto lanciate da una voce femminile, e soffocate dai bassi di una musica assordante che usciva dai finestrini.
- No… prego…no….no……basta…….aiuto!!-
- Ma che diavolo succede lì dentro – pensò, gettandosi dietro un cespuglio per paura di essere visto. Fece due passi indietro come se dalla macchina lasciata nel viale qualcuno lo stesse tirando indietro con una corda.
- E ora che faccio? Non posso andarmene. Lì dentro c’è qualcuno che chiede aiuto, maledizione!- pensò con la testa tra le mani intente ad asciugare il sudore che gli colava sulla fronte.
- Devo andare a vedere quello che sta succedendo lì dentro -
Si stese pancia a terra e come una tartaruga marina arrancò fino alla parete del casolare. Si alzò lento, mantenendo la schiena aderente al muro, e senza fare il minimo rumore sbirciò dalla finestrella coi vetri spaccati che era lì alla sua sinistra.

Di fronte a quella scena, i bulbi oculari per poco non gli schizzarono fuori dalle orbite.
- Mio Dio, non è possibile! - disse, portandosi le mani al volto mentre riscendeva a terra aderente al muro. Un flusso di succhi gastrici cominciò a risalirgli l’esofago fino alla bocca, trattenuto solo dalla paura di essere scoperto.
Sandra era lì, nuda e chinata su un tavolino in legno scheggiato e impolverato, con le mani legate a due funi che partivano dal muro e che le stiracchiavano il busto in avanti, con le cosce divaricate e le caviglie allacciate ai piedi del tavolino. Dalla tempia sgorgava un rigagnolo di sangue che le impiastricciava le ciglia.
In piedi, dietro di lei, c’era Achille Facchini, nudo e con quel becco di carne stretto nella mano sinistra, intento a ispezionare con le dita dell’altra mano il corpo inerme di Sandra. Sul viso, l’espressione tesa di un picchio prima di spaccare la corteccia di un albero.
- Stà calma bellezza, vedrai come ti piacerà -
Dalle mura della stanza l’intonaco cadeva a pezzi, e il pavimento era un cumulo di calcinacci e barattoli di vernice vuoti. In un angolo della stanza c’era una bombola del gas arrugginita, e appesa alla porta di ingresso, una vecchia falce col manico in legno.
Pasquale sentì la pena per quella creatura occludergli ogni poro della pelle; si sentì annegare in quel lago di miseria di cui era testimone. Cominciò ad avvertire un bisogno vitale di respirare, il sangue gli pulsava in fronte come se il cuore si fosse trasferito lì, e le mani cominciarono a vibrare come corde di chitarra.
- Non posso permettere che accada una cosa del genere, non posso maledizione! – si ripeteva serrando le mascelle e stringendo i pugni finché le nocche non divennero di un colore bianco avorio.
Strisciando per terra come una biscia arrivò all’ingresso sull’altro lato del casolare. Si alzò in piedi e intravide la falce appesa al muro. Con uno scatto felino la afferrò, e col coraggio di un samurai si diresse in direzione di Facchini.
- LASCIALAAAA PORCOOOO!! –
- AAAHHHHHHH……. -
La lama entrò nel fianco di Facchini senza il minimo ostacolo, come se avesse attraversato un pezzo di burro rosso che a contatto con la lama era diventato liquido e denso.
Dopo l’attacco fulmineo, Pasquale mollò il manico e indietreggiò di qualche passo. Davanti a lui, un corpo tremante e boccheggiante muoveva passi lenti e vomitava sangue misto a saliva. Mentre le sue mani cercavano di estrarre quell’arnese penzolante dal fianco, Facchini cadde a terra, inciampando in un mucchio di calcinacci, e rimase lì, a soffocare tra i suoi rantoli.

Pasquale si avvicinò al tavolo dov’era incatenata Sandra, e cominciò a slegarle i lacci ai polsi e alle caviglie.
- Dobbiamo andarcene da qui –, le disse.
Appena si alzò da quel tavolo delle torture, Sandra si agganciò al suo collo.
- Ora non piangere più, è tutto finito - la consolò, asciugandole le lacrime col bordo della tuta da lavoro.

E insieme si avviarono barcollando verso l’uscita.

sabato 23 febbraio 2008

Non volevo essere un campione

In piedi su un trampolino di metallo, Marco osservava l’autostrada d’acqua azzurra aprirsi davanti ai suoi occhi, con le strisce rosse e bianche che separavano le corsie e la linea blu della mezzeria sul fondo.
Pochi secondi ancora, e il fischio dell’arbitro avrebbe dato il via alla gara dei 50 metri in stile libero per il titolo di “Tritone” del circolo nautico Poseidone. Secondi che scorrevano lenti come ore.
In quell’attesa snervante, le sue gambe lunghe e smilze da fenicottero presero a tremare, smosse da un senso d’ansia iniziato con un fremito alla bocca dello stomaco e diventato una vera e propria tenaglia.
Se avesse potuto, se ne sarebbe rimasto volentieri a casa a guardare gli incontri di wrestling in televisione. Ma ormai era troppo tardi.
Dall’alto del trampolino guardava il pubblico sulle gradinate cercando di intravedere i "vecchi", come gli piaceva chiamare sua mamma e suo padre. E i vecchi erano lì, stipati come sardine in mezzo agli altri genitori. Manuela, sua mamma, era seduta accanto a Rosy, l’amica di sempre, e agitava le mani in aria per farsi vedere e per incoraggiarlo. Sembrava un’ultrà.
Accanto a lei c’era Paolo, suo padre, immobile con le braccia appoggiate al parapetto in ferro delle gradinate. Lo sguardo teso e fisso nel suo.
Uno sguardo che, pur da lontano, lo avvolgeva come un’armatura d’acciaio e gli irrigidiva le gambe e i muscoli.
Paolo nutriva una passione smisurata per quello sport. Una passione che, in gioventù, si era scontrata con il rifiuto sordo e indiscutibile di suo padre: “Vieni a darmi una mano in negozio, invece di perdere tempo come un pesce in ammollo!”

Marco cominciò allora ad immaginare come sarebbe stato il ritorno a casa, se non avesse vinto quella gara: suo padre che guidava tutto nervoso, e sua madre che non apriva bocca per paura delle sue reazioni incontrollate. Per un istante ripensò a quando Paolo gli aveva insegnato a rimanere a galla.
Erano al mare, a Formia, e per fare il bagno nell’acqua più pulita decisero di affittare il pedalò e di andare al largo. Quel giorno c’era anche Sara, sua sorella, che di solito rimaneva sotto l’ombrellone a studiare o a leggere i suoi romanzi d’amore.
Arrivati al largo, Paolo afferrò Marco sotto le ascelle e lo alzò in aria.
“Signore e signori, ecco a voi il più grande nuotatore di tutti i tempi: Marco Bellini”, e lo lanciò in acqua come un sasso.
“Ma sei impazzito!”, gridò Manuela
“Papà!”, gridò Sara
“Zitte e guardate”, le gelò Paolo.
Marco era scomparso sotto il pelo dell’acqua e dal basso salivano in superficie piccole bollicine d’aria. Pochi istanti e risalì in superficie come un sub in apnea, arrancando come un cagnolino in cerca di un appiglio, e con la bocca spalancata per incamerare un po’ d’aria.
“Muovi le braccia e le gambe se non vuoi andare giù, coraggio!”, gridò Paolo.
Marco aveva bevuto e non riusciva più a respirare. Cominciò a piangere. Sentì colargli sul viso qualche lacrima più salata dell’acqua di mare. Le braccia gli bruciavano come se avessero preso fuoco, e nonostante le muovesse come due remi, scendeva sempre più giù nell’abisso.
Ormai la bocca e le orecchie erano sommerse e solo gli occhi fuoriuscivano dall’acqua, come una piccola rana in uno stagno. Con le orecchie in acqua riusciva a sentire il battito accelerato del suo cuore; un suono nitido e pulito, come se quel piccolo muscolo stesse cercando di uscirgli dal petto.
All’improvviso però sentì una mano afferrarlo per un braccio e sollevarlo in aria, e in un attimo si ritrovò seduto sulla poppa del pedalò a tossire come un vecchio fumatore che tenta di respirare.
“Hai visto come sei stato bravo a rimanere a galla? Diventerai un campione, ne sono sicuro!”
“Si, papà”
E ora era lì, avvolto da quel caldo afoso e umido che sapeva di cloro. Voltandosi a destra vide che nella corsia accanto alla sua gareggiava Giacomo Pansini, un compagno di classe.
Giacomo Pansini era il figlio dell’avvocato Cesare Pansini, il presidente del circolo Poseidone. A scuola Giacomo era antipatico a tutti. Un giorno era il tuo migliore amico se ridevi alle sue battute e facevi quello che diceva, e il giorno dopo era il tuo peggior nemico e ti rifilava quegli scherzi del cavolo, tipo nasconderti il diario nel cestino dell’immondizia per farti ridere addosso da tutta la classe. E poi era sempre invidioso di quello che possedevano gli altri. Se vedeva nell’album di qualcuno la figurina di un calciatore che lui ancora non aveva, tornava a casa e sghignazzava finché i suoi non gli compravano tutte le bustine dell’edicola.
Sul trampolino alla sua sinistra invece, Marco vide Antonio Papale, quello che quando litigava dava a testate sul naso fino a farti lacrimare gli occhi e uscire il sangue. Per via di quel suo modo meschino di litigare, tutti a scuola lo chiamavano “l’Uomo Tigre”. Tutto suo padre.
Girava voce infatti, che quando suo padre era giovane, aveva ucciso un tipo a pugni in faccia solo perché aveva osato guardare troppo la sua ragazza, cioè la madre di Antonio.
In quel momento Marco si sentì come Cristo tra i due ladroni. Nelle altre corsie invece, Marco intravide Alfonso Pecora, Lucio Adinolfi e Marco Stasi, quelli della 5ª G.
Mentre girava di nuovo la testa verso la sua corsia, il suo sguardo si posò per un attimo su un gruppetto di ragazzine urlanti disposte in cerchio intorno a un’altra ragazzina di cui però Marco non riusciva a vedere il viso.
Quando il cerchio si sciolse, ne uscì lei: Sonia Viggiani, la figlia del dentista. Era proprio lei, la più bella dell’istituto, mora e coi capelli lunghi. Quella che aveva le tette più grandi di tutte e che faceva arrossire e fantasticare tutti i maschi. Marco compreso.
Su di lei giravano voci contrastanti a scuola: c’era chi diceva che era una vera santarellina, e chi giurava di averla vista in bagno abbassarsi le mutandine davanti a Gino il bidello.
Voci a parte, Marco restò per un attimo incantato a guardarla, mentre un’onda anomala di emozioni si abbatteva dentro di lui lasciando il segno del suo passaggio con un rossore acceso in volto.
Sulla sua testa comparve una nuvoletta bianca con dentro la scena di lui vittorioso, e di Sonia Viggiani avvinghiata a lui.

Cosa penserà di me Sonia Viggiani se non vinco? Che sono una schiappa, ecco quello che penserà.

Il primo fischio dell’arbitro avvertì i partecipanti di sistemarsi in posizione di partenza.
Al secondo fischio, Marco schizzò in aria come una cavalletta, con le braccia tese e unite in avanti per tagliare meglio il pelo dell’acqua. A ogni bracciata sentiva il suo corpo slittare in avanti e le grida di incitamento del pubblico che diventavano echi smorzati quando rimetteva la testa in acqua.
Poche bracciate ancora e il traguardo sarebbe stato suo.
Quando toccò con la punta delle dita il muretto di fine corsia, si alzò di scatto per avere la certezza della vittoria, ma si rese subito conto che non era così. Giacomo Pansini, con le braccia alzate, esultava in direzione del padre, che dagli spalti alzava i pugni in aria in segno di vittoria.
Marco cercò lo sguardo di Paolo, ma non riuscì a trovarlo.
Quando Manuela entrò negli spogliatoi, lo trovò in piedi su una panca in legno, immobile, con la testa china e i capelli che grondavano acqua per terra. Aveva gli occhi rossi e tirava su col naso.
“Ma sei matto, così ti prendi un accidente! Asciugati!”, gli disse stringendolo a sé con l’accappatoio e strofinandolo.
“Dov’è papà?”, fece lui.
“Papà ci sta aspettando in macchina, muoviamoci”
“Sono stato lentissimo, vero?”
“Ma che dici? Sei stato bravissimo”
“Non è vero. Mi dispiace mamma”
“Dispiace di cosa? Non fare lo stupido e muoviamoci che papà ci sta aspettando”, gli disse abbassandogli il costume e svelando allo spogliatoio un piccolo lombrico che gli penzolava tra le gambe.

La Regata blu metallizzato cominciò a sbuffare fumo al loro arrivo. Manuela salì davanti e Marco dietro. L’auto partì e al primo incrocio svoltò verso casa.
Era una sera d’inverno e Fabio, con la testa appoggiata al finestrino, ascoltava il fruscio del vento.
Mentre guidava, Paolo fischiettava e dava piccoli colpetti sul manubrio con le dita, finché di colpo sbottò:
“Ti sei fatto fottere da quello smidollato di Pansini, ti rendi conto?”
“Paolo, ti prego”, intervenne pacata Manuela.
“Ti prego cosa? Tu è meglio che stai zitta!”
“Papà…ma io…”, balbettò Marco
“Mi hai umiliato davanti a tutti, sei contento ora? Vorrei sapere dove sbaglio, cosa ti faccio mancare. Vuoi la bici nuova? Eccoti la bici nuova. Vuoi il computer come quello dei tuoi amici? Eccoti accontentato. Ti accontento in tutto e tu così mi ricambi? Nuotando come un pesce palla? Quante volte ti ho detto di allungare di più la bracciata e di unire bene le gambe in partenza, eh? Sei un buono a nulla, ecco quello che sei!”
“Hai finito ora? Che sarà mai una gara persa?”, continuò Manuela
“Si, si difendilo tu. Guarda come sta crescendo tuo figlio. Come un perdente, ecco come. Magari alla sua età avessi avuto io due genitori pronti a sacrificarsi per farmi diventare qualcuno.”
“Sei patetico, erano altri tempi”
“Ma quali altri tempi. Se uno vuole essere il primo nella vita, un vincente, deve farsi un mazzo così e impegnarsi a fondo fin da piccolo, invece di perdere il tempo coi libri e coi giochi”
“Marco ha solo dieci anni, lo capisci o no?”
“E allora? Ti sembra normale che a dieci anni si pisci ancora sotto, eh?”
“Stai esagerando, ora basta!”, tuonò Manuela
“Basta lo dico io, mia cara. Fino a prova contraria è il sottoscritto che paga l’affitto e le bollette. Non te lo dimenticare”

Quelle parole erano spilli nella carne, sale su una ferita sanguinante. Marco cominciò a tremare e a stringersi la testa tra le mani, come colpito da una crisi isterica.
“Vaffanculo, vaffanculo, fermati, voglio scendere!”, gridò Marco, tirando calci al sedile di Paolo.
Paolo frenò di colpo, come se la Madonna in persona gli si fosse materializzata davanti.
“Hai capito? Ho un figlio perdente e per di più maleducato”
Scese di corsa dall’auto con gli occhi iniettati di sangue, e aprì lo sportello posteriore.
“Basta….ti prego, lascialo stare!!”, lo pregò Manuela
Afferrò Marco per un braccio e lo tirò giù dalla macchina con forza. Il primo schiaffo gli lasciò sul viso l’impronta delle cinque dita. Rosse come le corsie di una piscina.

Appena arrivati a casa, Marco scappò nella sua stanza. Sara dormiva. Prese il pigiama e se lo infilò. Poi si nascose sotto le coperte.
Dal corridoio arrivavano i discorsi smorzati ma sempre taglienti di Manuela e Paolo. Poi il silenzio.
Manuela entrò nella stanza e si sedette sul bordo del letto dov’era Marco. Si accovacciò su di lui e lo abbracciò forte, passandogli una mano tra i capelli.
“Mamma, è vero quello che dice papà? Che sono un pisciasotto, e che non diventerò mai un uomo?”
“Ma no che non è vero. Papà a volte dice cose che non pensa. E’ fatto così. Ma tutto quello che fa, lo fa per il tuo bene”
“Pure quando mi riempie di botte?”
Manuela abbassò lo sguardo sul piumone azzurro del letto. Per un attimo vide il suo passato scorrerle davanti agli occhi: l’università mai finita, il matrimonio riparatore con Paolo per via della gravidanza e il lavoro di ragioniera lasciato e mai più ripreso, per occuparsi di Marco a tempo pieno. Cominciò ad avvertire il solito formicolio agli occhi, quello che le faceva compagnia ogni sera, a letto, prima di addormentarsi. E quando il suo sguardo incontrò quello timido e impaurito di suo figlio, sulle sue guance cominciarono a scorrere lacrime grosse come gocce di pioggia.
“Perché piangi mamma?”, s’affrettò Marco.
“Niente, non preoccuparti. Andiamo a letto ora”
Manuela si alzò e si avviò con passo lento e silenzioso verso la porta.
“Mamma?”
“Che c’è?”
“Puoi lasciare accesa la luce nel corridoio?”
“Va bene. Ora dormi però, che domani c’è scuola”
Manuela uscì e entrò nella sua stanza da letto.
Dopo pochi istanti, i passi di Paolo risuonarono nel corridoio.
Dal letto, Marco riusciva a scorgere l’ombra delle sue scarpe sotto la porta. Poi la luce si spense e Paolo seguì Manuela nella sua stanza.
Tutto intorno fu avvolto dall’oscurità. Ogni piccolo rumore era assordante: lo scricchiolio dei mobili, il ticchettio dell’orologio appeso al muro. In quel buio, qualsiasi alieno o spirito maligno avrebbe potuto rapirlo e portarlo chissà dove. E Paolo non lo avrebbe salvato perché era troppo arrabbiato per la gara.
Marco infilò la testa sotto le coperte e cominciò a mordersi le mani con forza, quasi volesse staccarsele. Avvertì un bruciore nella parte bassa dell’addome.

Devo correre in bagno, ma col buio non posso, non ce la faccio proprio.

Strinse forte le ginocchia al petto e lentamente sentì quel bruciore diminuire e l’addome rilassarsi. Era un sensazione bellissima. Distese le gambe e con la mano toccò le lenzuola. Erano tutte bagnate. Le annusò.

Mannaggia, mi sono pisciato di nuovo sotto. Stavolta papà mi ammazza.

Per un attimo chiuse gli occhi e suo padre gli si materializzò davanti, col dito puntato contro e una smorfia sprezzante stampata sul viso: “Vergognati alla tua età, vergognati. Domani lo dirò anche a Sonia Viggiani quello che fai, così vediamo se lo rifai o no!”
Col cuore in gola Marco si alzò dal letto, e arrancando tra le scarpe sparse sul pavimento si avvicinò alla scrivania accanto alla finestra. Ci salì sopra aiutandosi con la sedia. Aprì piano l’infisso e alzò lentamente le persiane. Sara dormiva beata e nascosta da una montagna di coperte. Guardò per un attimo la strada. Dal quarto piano le macchine schizzavano come lucciole impazzite, e le persone si muovevano come formiche in un formicaio. Poi guardò in alto. La luna sembrava una virgola bianca disegnata su un cielo di carta scura punteggiata di stelle.

Papà ha ragione. Non diventerò mai un campione se non mi alleno di più. Devo unire bene le gambe in partenza; è lì che sbaglio.
Voglio che papà sia fiero di me.

Unì bene le gambe e poi le braccia spingendosi col busto in avanti.
Finché fu tutto più buio.

Diario di una brutta sorpresa

L’appuntamento con Fatina90 è alle nove, ma alle otto sto già spingendo al massimo il motore dell’alfetta sull'asfalto liscio e lucido della Tiburtina. Quello di stasera è un vero incontro al buio, come l’ho sempre sognato. Sento l’adrenalina scorrere a litri nei muscoli e nelle mutande. Ieri sera in chat, Fatina90 mi ha pure avvertito: "Sii puntuale mi raccomando!". E io lo sarò. Ho giusto il tempo per fare un salto a Rebibbia, a comprare un po’ di erba da Skizzetto, quello che viene direttamente da Scampìa. Almeno questo è quello che dice lui, ma i napoletani, si sa, dicono sempre un sacco di stronzate.
Stasera ho bisogno di stonarmi un po’, per far calare l’ansia da prestazione e per non balbettare, così risulto pure più simpatico. “La prima impressione è quella che conta!”, diceva mia madre il primo giorno di scuola.
Prendo un cd a caso tra quelli sparsi sul cruscotto e lo infilo nello stereo. Giro la rotella del volume finché sul display non compare il numero dieci: il massimo possibile. Ecco che le casse cominciano a spararmi nei timpani la colonna sonora di Rocky, e allora comincio a gasarmi e a schiacciare di più il piede sull’acceleratore. Questa è musica. Non quella checca di Tiziano Ferro che piace tanto a Fatina90.
Arrivo davanti alla metro di Rebibbia, e Skizzetto è lì che saltella come un canguro per il freddo. Appena vede l’alfetta, si guarda intorno e si avvicina.
“Cià amico friz, tutt’a posto?”
“Abbastanza. Che porti di nuovo?”
“Compà, chesta è robba e primma qualità, guarda ccà, guarda guarda….”
“Si, si, va bene. Quanto vuoi?”
“Per te venti, amico mio, ma sulo pecchè si tu, e non lo dire in giro che mi rovini, va buono?”
“Prendi”, gli do venti euro e me lo levo di torno.
Il tempo di rollarmi una cannetta e di accenderla, e via di nuovo sull'asfalto impregnato dall’umidità. Mentre guido, spingo lo sguardo oltre la strada, fino alla linea dell’orizzonte. Tra le nuvole mi sembra di intravedere una falce di metallo che emana una luce argentea e fioca. Forse è la luna, ma non ne sono sicuro. Il fumo mi annebbia la vista e le palpebre mi si chiudono come due serrande, ma riesco ancora a vedere la mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore.
I capelli stirati sul cranio col gel mi scendono sulle spalle, asciutti e folti come una criniera, insieme all’orecchino d’oro a ciondolo. Sono un vero tronista. Arrivo Fatina90. Fatina “la topina”.

E ora sono qui, davanti casa tua. Sono sceso dal bolide e ho gettato a terra l’ultimo pezzo di canna, che è caduto come una stella cometa dritto nel tombino delle fogne. Canestro. Hai capito in che bella casa vive Fatina90? Prendo il pacchetto di Vigorsol dalla tasca e me ne lancio in bocca tre pezzi. Da lontano intravedo l’ingresso di quello che dovrebbe essere il suo condominio. Aveva detto alle nove, e sono le nove. Ho lo sguardo fisso in quel punto, non mi sfuggi Fatina90.
La porticina di legno dell’ingresso si sta aprendo e…aspetta, aspetta che forse….si, deve essere lei…. E’ lei, ne sono sicuro. Appena è uscita sul marciapiedi, si è guardata un po’ intorno. Quando mi ha intravisto, mi ha sorriso e si è diretta verso di me.
Indossa un vestitino da sera nero tutto attillato, che l’avvolge come un guanto e ne esalta il fisico snello e atletico. Solo le spalle e la schiena sono scoperte.
Ha in testa un bel cespuglio di capelli ricci, raccolti in alto con qualche diabolico sistema che solo una donna può conoscere.
Questa si che è una vera femmina, una cagna, un pezzo da novanta. E poi dicono che in chat ci sono solo cessi con foto ritoccate. Appena mi ha intravisto, ha subito capito chi ero. I miei occhi scorrono sulle curve strette e pericolose del suo seno abbondante, come se stessi percorrendo i tornanti di un promontorio a picco sul mare, e sento il cuore pompare più forte in petto. Pompa, pompa cuore mio, e intanto mi si sta gonfiando la patta dei pantaloni. Cerco di nascondere il rigonfiamento abbottonandomi la giacca. E dire che mi ero pure un po’ stonato con l’erbetta miracolosa dell’amico Skizzetto, il napoletano.
Ora però non c’è più tempo per pensare; lei è qui di fronte a me, e sembra avere più dei diciotto anni che il nick lascia intendere.
“Tu devi essere Tuono75, o sbaglio?”, mi chiede.
“Non sbagli, sono proprio io”, le rispondo, e ci salutiamo con un bacio sulla guancia. Ha un profumo strano la Fatina, dolciastro e forte, ma ora non importa.
“Sono come immaginavi?”, mi chiede ruotando su se stessa.
Ha un culo tremendo la fatina. Prima, mentre camminava verso di me, non riuscivo a vederglielo, ma ora che si è voltata, l’ho ammirato in tutta la sua rotondità e consistenza. E’ un culo onesto, non c’è che dire.
“Si, e anche meglio ad essere sincero. E di me che dici, ti aspettavi qualcun altro?”
“No, sei proprio come ti immaginavo”, risponde lei, sorridendomi con una malizia appena percepibile. Un attimo di pausa e ci scrutiamo a vicenda, occhi negli occhi. Già sappiamo cosa fare, vero Fatina? E’ tutto deciso, programmato e soprattutto voluto. Ce lo siamo detti mille volte, nascosti dietro quello schermo di solitudine e paura.
“Andiamo?”, le chiedo.
“Si, andiamo”
Il gioco è iniziato, e ora ci lasciamo andare. Saremo noi stessi fino in fondo e non potremo più tornare indietro. Le infilo il braccio destro dietro la nuca, e la tiro a me. Lei già sa cosa fare e apre la bocca per accogliere la mia lingua, che ora cerca la sua: un incontro tra due serpenti a sonagli. Questo sono diventate le nostre lingue. Ed è solo l’inizio. Guido a memoria senza guardare la strada, diretto al solito hotel. Ora riesco a distinguere la luna nel cielo. E’ chiara e luminosa ed è il mio unico faro in questa notte di fine agosto. Parcheggio l’auto al solito posto e scendiamo. Alla vista della reception lei si intimidisce, e allora capisco che quel compito è tutto mio. I ruoli sono ruoli e vanno rispettati.
Niko da dietro il bancone accenna un sorriso: “Questa è la meglio de tutte”.
“Tu segna e la settimana prossima saldo, ok?”
“Ok. Stanza 104”
“Grazie”

Entriamo in ascensore, e in un attimo quel tram verticale si trasforma in una camera di decompressione tra il mondo esterno e l’interno dell’hotel. Siamo senza più freni inibitori ora, e senza più difese. Non possiamo aspettare di entrare nella stanza 104, e allora premo il pulsantino rosso con scritto “Stop” e il tram si ferma. In un attimo sono già a torso nudo, e il freddo della parete dell’ascensore contro la schiena è peggio della lama di un coltello che entra nella carne. Ora sono dietro di lei, e la mia lingua cammina lentamente sul suo collo teso e nervoso, come una lumaca che lascia una bava densa e schiumosa al suo passaggio. Intanto le abbasso la parte superiore del vestito. La giro verso di me, e in un attimo la concavità delle mie mani incontra la convessità dei suoi seni sodi e bianchi. Glieli stringo come farebbe un contadino prima di raccogliere due pere dai rami, mentre coi denti le stuzzico i capezzoli piccoli e duri e circondati da peletti neri. Due piccole antennine collegate alle mie frequenze cerebrali.
Il gioco le piace, la sento gemere, ma dopo un po’ si libera dalla mia morsa e si piega in ginocchio. Ora è il mio turno, lo so. Questo si che si chiama altruismo.

Sono stato fortunato ad incontrarti Fatina90, e stai tranquilla che mi sdebiterò come meglio posso.

Mi slaccia la cinghia dei pantaloni e li abbassa insieme ai boxer. La guardo afferrare il mio uccello eretto con le sue mani vellutate e poi sventolarlo all’aria e osservarlo con gusto e curiosità, quasi volesse studiare e comprendere quella meraviglia che le si è presentata davanti fulminea, appena ha calato giù i boxer. Pochi attimi ancora e il suo viso scompare tra i capelli, e allora vedo soltanto quel cespuglio rigoglioso di riccioli castani andare su e giù.

Sei davvero magnifica Fatina90. Per quello che stai facendo e per come lo stai facendo. Hai iniziato a leccarlo dalla testa, come faresti con un cornetto Algida, e poi l’hai risucchiato giù fino in gola, facendo attenzione a non rigarlo coi denti. Questo si chiama rispetto. E ci puoi scommettere mia cara, mia “dea del pompino con risucchio”, che lo stesso riguardo lo riserverò al tuo culo quando, tra un po’, lo spalancherò per fonderci insieme in quella simbiosi animale tanto desiderata da entrambi. Perché so che è questo quello che desideri anche tu. Te lo leggo in questi bellissimi occhi castani che ora stai puntando dritto in fondo ai miei.

Le trattengo la testa con le mani, per interrompere quell’esercizio agonistico, e mi accovaccio a terra accanto a lei. Le sfioro la schiena con le labbra e cerco di toglierle del tutto il vestitino nero che ha scelto per la serata. Lei non mi aiuta, vuole che sia io il regista di tutto. Così sia. Ora è quasi nuda, mi separa da lei solo l’incomodo di quelle mutandine nere di pizzo, e poi accadrà quello per cui abbiamo atteso e sperato. Ma nell’attimo in cui sto per sfilarle, accade quello che non avrei mai immaginato potesse accadermi nella vita. Quello che pensi possa accadere agli altri, ma non a te. Quello che ti ha raccontato il tuo barbiere e che tu hai prontamente bollato come “la stronzata del secolo”. E ora, quella stronzata è proprio lì di fronte a me, e io mi sento demotivato e deluso, molto deluso. Come quando da bambino rompevo a pugni l’uovo di Pasqua, e piangevo perché la sorpresa che trovavo tra i pezzi di cioccolata frantumati non era quella che avevo sperato.

Questa clavicola cavernosa e venosa, che emerge fiera tra le tue gambe, è il sacro “lingam” del dio Shiva.
E non possiamo far finta che non ci sia. E’ un dato inequivocabile, cara fatina transgender.
Ma io non l’avevo preventivato e ora ho paura. Voglio sapere a che gioco stiamo giocando. La favola è finita.
Ma tu mi hai letto negli occhi quello che sto pensando, e hai smesso di sorridere. Anzi, mi sembra che i tuoi occhi si stiano gonfiando di lacrime, ora che mi sto rialzando le mutande.
Ti prego non piangere. E’ che proprio non ce la faccio a continuare. Non c’entra un cazzo il razzismo, la religione o le altre stronzate che dicono su di voi. Me ne sbatto. Io non ho religioni. E’ solo una questione di gusti.

“Scusami, avrei dovuto dirtelo”, mi dice lei con la voce sincopata dai singhiozzi, mentre raccatta da terra il vestitino nero.
“Non preoccuparti, non è niente. Però è meglio che andiamo ora, non credi?”
“Si. Ma sii sincero, ti faccio schifo, non è così?”.

Ora sta piangendo a dirotto, e mentre la guardo, sento che sto per annegare anch’io tra le sue lacrime. E’ come se mi stessero togliendo il fiato dai polmoni e non so che dire. Anch’io sono triste. D’altro canto non c’è niente di male che lei abbia fatto. E’ solo la novità della cosa che mi ha scioccato.

“Non mi fai schifo, credimi. E’ che sono andato sempre con donne…diciamo “normali”…..quindi la cosa mi ha spaventato un pò, tutto qui”
“Certo. Ti capisco. Come capisco i miei, che mi hanno sbattuto fuori di casa a diciassette anni, e come capisco tutti gli amici che mi hanno allontanata, manco avessi la peste. Ma io sono quella che vedi e non posso farci niente”.

Come ti capisco Fatina. Anch’io quando ho detto ai miei che volevo vivere di musica, mi hanno dato due calci nel culo e da un giorno all’altro mi sono ritrovato su un marciapiede, solo con la mia chitarra, a regalare note alla gente per pochi spiccioli. Ma la vita è così, a volte è strana e contraddittoria, e non puoi farci niente. Proprio quelle persone che dovrebbero esserti più vicine, nel momento del bisogno ti mollano.
Come quei testadiminchia che prima comprano un cane per tenere compagnia al loro unico figlioletto, e poi, quando il pargolo si è stufato, lo abbandonano per strada e se ne vanno al mare. Funziona così. E tu puoi solo stringere i denti e andare avanti.
Ma ora vieni qui Fatina e abbracciami. Regalami un sorriso, un sorriso vero e sincero. Quello che forse solo tu puoi darmi. Io ne ho bisogno. Tu ne hai bisogno.

Mi avvicino a lei, e lascio che si perda tra le mie braccia. Dopo un po’ smette di piangere, e alza lo sguardo verso di me, come un lupo mannaro alla luna.
Sulle sue labbra si schiude d’improvviso un sorriso largo e colorato, come una crisalide che diventa farfalla e vola via.
“Questo vuol dire che possiamo vederci qualche volta, che so, per uscire a fare due chiacchiere?”, mi fa.
“Certo, conta su di me. Quando vuoi”

Usciamo dall’ascensore e Fatina90 si avvia verso il parcheggio. Alla reception non c’è nessuno e allora lascio le chiavi sul tavolo.

Addio Niko.

Esco nell’aria e alzo gli occhi al cielo. La luna è quasi del tutto scomparsa, e ha lasciato il posto al chiarore sfumato di una nuova alba. Fatina90 è lì che mi aspetta. La vedo circondarsi con le braccia per ripararsi dal freddo. La guardo e sono felice.

Non andare

Stamattina mi sono svegliato, e mentre guardavo il cornetto con la nutella affondare nella ciotola col latte e caffè, ho cominciato a riflettere sul rapporto tra genitori e figli.
Il mio amico di sempre, Enzo, ieri sera mi ha comunicato di aver avuto un’ottima offerta di lavoro a Milano. Eravamo a cena, all’Agua Mala. Lo guardavo dritto negli occhi, cercando di capire se stesse dicendo una delle sue cazzate megagalattiche, ma era serio. Il boccone di entrecôte che stavo masticando mi si è bloccato nell’esofago e non riusciva più a scendere. Ho dovuto buttare giù due bicchieri di Aglianico per poter riprendere a respirare.
“Che hai?”, mi fa
“Niente, tutt’a posto…continua”
“Mi danno duemila euro al mese, e in più mi pagano la casa e mi danno l’auto aziendale. Che ne dici?”, mi fa, “E poi avrei buone possibilità di carriera a Milano”
“Dico che è una bella proposta, per come me la stai ponendo. I tuoi come l’hanno presa?”, gli faccio io.
Apriti cielo.
“I miei non capiscono un cazzo lo sai, li conosci. Per loro basta che ho un contratto a tempo indeterminato e uno straccio di stipendio, il resto non conta. Parole come “carriera”, “soddisfazione”, sono solo sfizi dell’età”.
“Hanno paura che te ne vai a Milano e non torni più?”
“Esatto. Sai che mi dicono?”
“Cosa?”
“Ora te ne vai, incontri una che ti fa mettere la testa a posto, e lì rimani per sempre”
“Forse un po’ li capisco sai? Sei l’ultimo figlio e ti vedono come il bastone della vecchiaia”
“Si vabbè hai ragione, e un domani che non ci saranno più? Con chi me la prenderò di essere rimasto un semplice impiegato di un azienda di provincia? Me lo dici?”
“Te la prenderai con te stesso forse, o forse ringrazierai qualcuno per esserti goduto di più i tuoi vecchi. Nessuno può sapere con chi te la prenderai.”
“Ho il cervello in fiamme! Non se ne accorgono forse, ma mi stanno obbligando a una scelta drastica: o loro, o il lavoro. Ma ti pare possibile?”
“Fagli capire che oggi, con gli aerei, ci si sposta molto più facilmente di prima, e che da Capodichino in un’ora stai a Milano.”
“C’ho provato, ma niente. Mi ripetono che non hanno più cinquant’anni, e che c’è bisogno di chi li accompagna in aeroporto ogni volta…..insomma vedono solo cose negative”
In quel momento avrei voluto interromperlo per chiedergli di non accettare, di rimanere qui a Santa Maria e di continuare a fare insieme tutte le cose che abbiamo sempre fatto. Ma non ne ho avuto il coraggio. Ho avuto paura di dirgli che ho bisogno di lui, che la sua amicizia mi serve come l’aria per respirare.

lunedì 11 febbraio 2008

Se questo è un uomo


Voi che vivete sicuri al Nord,
Nelle vostre verdi e belle città,
voi che trovate tornando a sera
alberi in fiore e profumi:
Considerate se questo è un uomo:
Che cammina tra i rifiuti
Che respira i veleni della terra
Che lotta per un posto di lavoro
Che muore per malasanità

Che non conosce legge
Che insozza anche la propria erba
Che sparge neve velenosa
Che impone con il piombo il suo potere

Meditate che questo è :
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi, alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

(* dall' introduzione al libro Se questo è un uomo di Primo Levi)

sabato 2 febbraio 2008

Perchè scrivere?

"Io scrivo perchè sento il bisogno innato di scrivere! Scrivo perchè non posso fare un lavoro normale, come gli altri. Scrivo perchè voglio leggere libri come quello che scrivo. Scrivo perchè ce l'ho con voi, con tutti. Scrivo perchè mi piace stare seduto in una stanza a scrivere tutto il giorno. Scrivo perchè posso sopportare la realtà soltanto trasformandola. Scrivo perchè amo l'odore della carta......scrivo perchè la vita, il mondo, tutto è incredibilmente bello e sorprendente......scrivo perchè non sono mai riuscito a essere felice. Scrivo per essere felice."

Da La valigia del padre di Orhan Pamuk - Premio Nobel per la letteratura 2006