sabato 23 febbraio 2008

Diario di una brutta sorpresa

L’appuntamento con Fatina90 è alle nove, ma alle otto sto già spingendo al massimo il motore dell’alfetta sull'asfalto liscio e lucido della Tiburtina. Quello di stasera è un vero incontro al buio, come l’ho sempre sognato. Sento l’adrenalina scorrere a litri nei muscoli e nelle mutande. Ieri sera in chat, Fatina90 mi ha pure avvertito: "Sii puntuale mi raccomando!". E io lo sarò. Ho giusto il tempo per fare un salto a Rebibbia, a comprare un po’ di erba da Skizzetto, quello che viene direttamente da Scampìa. Almeno questo è quello che dice lui, ma i napoletani, si sa, dicono sempre un sacco di stronzate.
Stasera ho bisogno di stonarmi un po’, per far calare l’ansia da prestazione e per non balbettare, così risulto pure più simpatico. “La prima impressione è quella che conta!”, diceva mia madre il primo giorno di scuola.
Prendo un cd a caso tra quelli sparsi sul cruscotto e lo infilo nello stereo. Giro la rotella del volume finché sul display non compare il numero dieci: il massimo possibile. Ecco che le casse cominciano a spararmi nei timpani la colonna sonora di Rocky, e allora comincio a gasarmi e a schiacciare di più il piede sull’acceleratore. Questa è musica. Non quella checca di Tiziano Ferro che piace tanto a Fatina90.
Arrivo davanti alla metro di Rebibbia, e Skizzetto è lì che saltella come un canguro per il freddo. Appena vede l’alfetta, si guarda intorno e si avvicina.
“Cià amico friz, tutt’a posto?”
“Abbastanza. Che porti di nuovo?”
“Compà, chesta è robba e primma qualità, guarda ccà, guarda guarda….”
“Si, si, va bene. Quanto vuoi?”
“Per te venti, amico mio, ma sulo pecchè si tu, e non lo dire in giro che mi rovini, va buono?”
“Prendi”, gli do venti euro e me lo levo di torno.
Il tempo di rollarmi una cannetta e di accenderla, e via di nuovo sull'asfalto impregnato dall’umidità. Mentre guido, spingo lo sguardo oltre la strada, fino alla linea dell’orizzonte. Tra le nuvole mi sembra di intravedere una falce di metallo che emana una luce argentea e fioca. Forse è la luna, ma non ne sono sicuro. Il fumo mi annebbia la vista e le palpebre mi si chiudono come due serrande, ma riesco ancora a vedere la mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore.
I capelli stirati sul cranio col gel mi scendono sulle spalle, asciutti e folti come una criniera, insieme all’orecchino d’oro a ciondolo. Sono un vero tronista. Arrivo Fatina90. Fatina “la topina”.

E ora sono qui, davanti casa tua. Sono sceso dal bolide e ho gettato a terra l’ultimo pezzo di canna, che è caduto come una stella cometa dritto nel tombino delle fogne. Canestro. Hai capito in che bella casa vive Fatina90? Prendo il pacchetto di Vigorsol dalla tasca e me ne lancio in bocca tre pezzi. Da lontano intravedo l’ingresso di quello che dovrebbe essere il suo condominio. Aveva detto alle nove, e sono le nove. Ho lo sguardo fisso in quel punto, non mi sfuggi Fatina90.
La porticina di legno dell’ingresso si sta aprendo e…aspetta, aspetta che forse….si, deve essere lei…. E’ lei, ne sono sicuro. Appena è uscita sul marciapiedi, si è guardata un po’ intorno. Quando mi ha intravisto, mi ha sorriso e si è diretta verso di me.
Indossa un vestitino da sera nero tutto attillato, che l’avvolge come un guanto e ne esalta il fisico snello e atletico. Solo le spalle e la schiena sono scoperte.
Ha in testa un bel cespuglio di capelli ricci, raccolti in alto con qualche diabolico sistema che solo una donna può conoscere.
Questa si che è una vera femmina, una cagna, un pezzo da novanta. E poi dicono che in chat ci sono solo cessi con foto ritoccate. Appena mi ha intravisto, ha subito capito chi ero. I miei occhi scorrono sulle curve strette e pericolose del suo seno abbondante, come se stessi percorrendo i tornanti di un promontorio a picco sul mare, e sento il cuore pompare più forte in petto. Pompa, pompa cuore mio, e intanto mi si sta gonfiando la patta dei pantaloni. Cerco di nascondere il rigonfiamento abbottonandomi la giacca. E dire che mi ero pure un po’ stonato con l’erbetta miracolosa dell’amico Skizzetto, il napoletano.
Ora però non c’è più tempo per pensare; lei è qui di fronte a me, e sembra avere più dei diciotto anni che il nick lascia intendere.
“Tu devi essere Tuono75, o sbaglio?”, mi chiede.
“Non sbagli, sono proprio io”, le rispondo, e ci salutiamo con un bacio sulla guancia. Ha un profumo strano la Fatina, dolciastro e forte, ma ora non importa.
“Sono come immaginavi?”, mi chiede ruotando su se stessa.
Ha un culo tremendo la fatina. Prima, mentre camminava verso di me, non riuscivo a vederglielo, ma ora che si è voltata, l’ho ammirato in tutta la sua rotondità e consistenza. E’ un culo onesto, non c’è che dire.
“Si, e anche meglio ad essere sincero. E di me che dici, ti aspettavi qualcun altro?”
“No, sei proprio come ti immaginavo”, risponde lei, sorridendomi con una malizia appena percepibile. Un attimo di pausa e ci scrutiamo a vicenda, occhi negli occhi. Già sappiamo cosa fare, vero Fatina? E’ tutto deciso, programmato e soprattutto voluto. Ce lo siamo detti mille volte, nascosti dietro quello schermo di solitudine e paura.
“Andiamo?”, le chiedo.
“Si, andiamo”
Il gioco è iniziato, e ora ci lasciamo andare. Saremo noi stessi fino in fondo e non potremo più tornare indietro. Le infilo il braccio destro dietro la nuca, e la tiro a me. Lei già sa cosa fare e apre la bocca per accogliere la mia lingua, che ora cerca la sua: un incontro tra due serpenti a sonagli. Questo sono diventate le nostre lingue. Ed è solo l’inizio. Guido a memoria senza guardare la strada, diretto al solito hotel. Ora riesco a distinguere la luna nel cielo. E’ chiara e luminosa ed è il mio unico faro in questa notte di fine agosto. Parcheggio l’auto al solito posto e scendiamo. Alla vista della reception lei si intimidisce, e allora capisco che quel compito è tutto mio. I ruoli sono ruoli e vanno rispettati.
Niko da dietro il bancone accenna un sorriso: “Questa è la meglio de tutte”.
“Tu segna e la settimana prossima saldo, ok?”
“Ok. Stanza 104”
“Grazie”

Entriamo in ascensore, e in un attimo quel tram verticale si trasforma in una camera di decompressione tra il mondo esterno e l’interno dell’hotel. Siamo senza più freni inibitori ora, e senza più difese. Non possiamo aspettare di entrare nella stanza 104, e allora premo il pulsantino rosso con scritto “Stop” e il tram si ferma. In un attimo sono già a torso nudo, e il freddo della parete dell’ascensore contro la schiena è peggio della lama di un coltello che entra nella carne. Ora sono dietro di lei, e la mia lingua cammina lentamente sul suo collo teso e nervoso, come una lumaca che lascia una bava densa e schiumosa al suo passaggio. Intanto le abbasso la parte superiore del vestito. La giro verso di me, e in un attimo la concavità delle mie mani incontra la convessità dei suoi seni sodi e bianchi. Glieli stringo come farebbe un contadino prima di raccogliere due pere dai rami, mentre coi denti le stuzzico i capezzoli piccoli e duri e circondati da peletti neri. Due piccole antennine collegate alle mie frequenze cerebrali.
Il gioco le piace, la sento gemere, ma dopo un po’ si libera dalla mia morsa e si piega in ginocchio. Ora è il mio turno, lo so. Questo si che si chiama altruismo.

Sono stato fortunato ad incontrarti Fatina90, e stai tranquilla che mi sdebiterò come meglio posso.

Mi slaccia la cinghia dei pantaloni e li abbassa insieme ai boxer. La guardo afferrare il mio uccello eretto con le sue mani vellutate e poi sventolarlo all’aria e osservarlo con gusto e curiosità, quasi volesse studiare e comprendere quella meraviglia che le si è presentata davanti fulminea, appena ha calato giù i boxer. Pochi attimi ancora e il suo viso scompare tra i capelli, e allora vedo soltanto quel cespuglio rigoglioso di riccioli castani andare su e giù.

Sei davvero magnifica Fatina90. Per quello che stai facendo e per come lo stai facendo. Hai iniziato a leccarlo dalla testa, come faresti con un cornetto Algida, e poi l’hai risucchiato giù fino in gola, facendo attenzione a non rigarlo coi denti. Questo si chiama rispetto. E ci puoi scommettere mia cara, mia “dea del pompino con risucchio”, che lo stesso riguardo lo riserverò al tuo culo quando, tra un po’, lo spalancherò per fonderci insieme in quella simbiosi animale tanto desiderata da entrambi. Perché so che è questo quello che desideri anche tu. Te lo leggo in questi bellissimi occhi castani che ora stai puntando dritto in fondo ai miei.

Le trattengo la testa con le mani, per interrompere quell’esercizio agonistico, e mi accovaccio a terra accanto a lei. Le sfioro la schiena con le labbra e cerco di toglierle del tutto il vestitino nero che ha scelto per la serata. Lei non mi aiuta, vuole che sia io il regista di tutto. Così sia. Ora è quasi nuda, mi separa da lei solo l’incomodo di quelle mutandine nere di pizzo, e poi accadrà quello per cui abbiamo atteso e sperato. Ma nell’attimo in cui sto per sfilarle, accade quello che non avrei mai immaginato potesse accadermi nella vita. Quello che pensi possa accadere agli altri, ma non a te. Quello che ti ha raccontato il tuo barbiere e che tu hai prontamente bollato come “la stronzata del secolo”. E ora, quella stronzata è proprio lì di fronte a me, e io mi sento demotivato e deluso, molto deluso. Come quando da bambino rompevo a pugni l’uovo di Pasqua, e piangevo perché la sorpresa che trovavo tra i pezzi di cioccolata frantumati non era quella che avevo sperato.

Questa clavicola cavernosa e venosa, che emerge fiera tra le tue gambe, è il sacro “lingam” del dio Shiva.
E non possiamo far finta che non ci sia. E’ un dato inequivocabile, cara fatina transgender.
Ma io non l’avevo preventivato e ora ho paura. Voglio sapere a che gioco stiamo giocando. La favola è finita.
Ma tu mi hai letto negli occhi quello che sto pensando, e hai smesso di sorridere. Anzi, mi sembra che i tuoi occhi si stiano gonfiando di lacrime, ora che mi sto rialzando le mutande.
Ti prego non piangere. E’ che proprio non ce la faccio a continuare. Non c’entra un cazzo il razzismo, la religione o le altre stronzate che dicono su di voi. Me ne sbatto. Io non ho religioni. E’ solo una questione di gusti.

“Scusami, avrei dovuto dirtelo”, mi dice lei con la voce sincopata dai singhiozzi, mentre raccatta da terra il vestitino nero.
“Non preoccuparti, non è niente. Però è meglio che andiamo ora, non credi?”
“Si. Ma sii sincero, ti faccio schifo, non è così?”.

Ora sta piangendo a dirotto, e mentre la guardo, sento che sto per annegare anch’io tra le sue lacrime. E’ come se mi stessero togliendo il fiato dai polmoni e non so che dire. Anch’io sono triste. D’altro canto non c’è niente di male che lei abbia fatto. E’ solo la novità della cosa che mi ha scioccato.

“Non mi fai schifo, credimi. E’ che sono andato sempre con donne…diciamo “normali”…..quindi la cosa mi ha spaventato un pò, tutto qui”
“Certo. Ti capisco. Come capisco i miei, che mi hanno sbattuto fuori di casa a diciassette anni, e come capisco tutti gli amici che mi hanno allontanata, manco avessi la peste. Ma io sono quella che vedi e non posso farci niente”.

Come ti capisco Fatina. Anch’io quando ho detto ai miei che volevo vivere di musica, mi hanno dato due calci nel culo e da un giorno all’altro mi sono ritrovato su un marciapiede, solo con la mia chitarra, a regalare note alla gente per pochi spiccioli. Ma la vita è così, a volte è strana e contraddittoria, e non puoi farci niente. Proprio quelle persone che dovrebbero esserti più vicine, nel momento del bisogno ti mollano.
Come quei testadiminchia che prima comprano un cane per tenere compagnia al loro unico figlioletto, e poi, quando il pargolo si è stufato, lo abbandonano per strada e se ne vanno al mare. Funziona così. E tu puoi solo stringere i denti e andare avanti.
Ma ora vieni qui Fatina e abbracciami. Regalami un sorriso, un sorriso vero e sincero. Quello che forse solo tu puoi darmi. Io ne ho bisogno. Tu ne hai bisogno.

Mi avvicino a lei, e lascio che si perda tra le mie braccia. Dopo un po’ smette di piangere, e alza lo sguardo verso di me, come un lupo mannaro alla luna.
Sulle sue labbra si schiude d’improvviso un sorriso largo e colorato, come una crisalide che diventa farfalla e vola via.
“Questo vuol dire che possiamo vederci qualche volta, che so, per uscire a fare due chiacchiere?”, mi fa.
“Certo, conta su di me. Quando vuoi”

Usciamo dall’ascensore e Fatina90 si avvia verso il parcheggio. Alla reception non c’è nessuno e allora lascio le chiavi sul tavolo.

Addio Niko.

Esco nell’aria e alzo gli occhi al cielo. La luna è quasi del tutto scomparsa, e ha lasciato il posto al chiarore sfumato di una nuova alba. Fatina90 è lì che mi aspetta. La vedo circondarsi con le braccia per ripararsi dal freddo. La guardo e sono felice.

1 commento:

Anonimo ha detto...

mi piace come scrivi, ma il mio è il giudizio da profana...ho letto solo questo racconto perchè mi ha attratta il titolo e ho scelto bene dato che mi piacciono i termini forti ma senza esagerare..bello, leggerò pian piano anche gli altri.ciao